Scheda

Numero d'ordine: 44

Data: 4 09 1541

Intestazione: GIORGIO VASARI IN AREZZO A PAOLO GIOVIO IN [VENEZIA]

Segnatura: BRF, 2354, cc. 4v-7, copia di Giorgio Vasari il Giovane.

Fonte: Al Reverendissimo Vescovo Jovio, sopra l’albero della Fortuna.
Doppo la partita vostra, Monsignor mio, rimasi sì smarrito per l’assenzia del Signor Cardinale e di tanti signori e padroni miei, che la virtù mia, che si pasceva della lor vista e cresceva nelle loro speranze nella perfezzione dell’arte del disegnio, poi mi si sono freddi gli spiriti per il dolore sì nel non esser tanto ardente e volunteroso di quanto facevo prima, causato, che non avevo cagione di portare giornalmente le cose mie che facevo, a nessuno, che mi inalzassi, mi inanimissi e tirassi innanzi come faceva Monsignore Reverendissimo. E non ostante che mi si diminuissi ogni dì più la voglia di far cose che m’avessino a render col tempo famoso nella pittura, e’ sensi e la virtù del corpo mi si ribellò contro; et è divenuta inferma la vita mia con una febbre atrocissima, credo causata dalle fatiche, fatte da me questo verno passato. Così vistomi abbandonato, ancorché il Canigiano ci facessi venire maestro Paolo Ebreo medico, come veddi che ammalò Batista dal Borgo, mio servitore, mi tenni morto e non pensavo più ad altro se non render lo spirito a Colui, che me lo diede.
Quando, confortato da amici, mi fu proposto di farmi condurre in ceste col mio Batista in Arezzo, riebbi il fiato al suono di queste parole. E così ci fu preparato il tutto, che potessimo condurci salvi con comodità a casa mia Arezzo, confidando assai nel governo et amore di mia madre, la quale (ancor che per ignoranza di chi non intese il mio male, doppo ch’io fui arrivato in Arezzo, io ricadessi dua volte, che sendo sì debole e mal condotto, poco fiato era rimasto, che un minimo accidente lo poteva finire) ricordavo spesso la Signoria Vostra che se quella fussi stata in Roma, io mai mi sarei voluto partire, quando ben fussi morto, confortandomi che sotto l’ombra del Cardinale, ancor che io non fussi venuto a perfectione, né fine della nostra arte, mi sarebbe parso morir glorioso et avere conseguito sotto di lui, così morto, quella fama che arei acquistato col tempo, faticando, s’io fussi stato vivo.
Mi è valso assai la diligenzia di mia madre, la quale vedova di poco del marito, si preparava non solo alla perdita del figliuolo, ma avere accecare affatto la sua casa, rimanendo con tre putte femmine et un maschio di tre anni, senza speranza di benefizio alcuno a sé, e con certezza di stento sino alla morte continuo. Dolevami per amor suo certamente la morte, vedendo lo elemento, di che ella fussi per vivere, che erano amare lacrime, che versando, faceva morirmi di passione più che della continua febbre, che mai mi lassò.
Credo, che il grande Iddio voltando gl’occhi alla virginità di quelle puttine, alla innocenzia di quel maschio, all’afflizione di mia madre et alla compassione dell’esser io destrutto et alla infelicità di casa mia, per la perdita che s’era fatta di poco di mio padre e d’un fratello, secondo a me, che l’anno ‘30 anch’egli dall’esercito, che era intorno a Firenze, pigliò la peste e di quella fini di 13 anni, rasserenò tutti gl’animi di casa mia tribolati nel cessarmi la febbre. E così a poco a poco riavendomi, si convertì in quartana, quale ora porto. E ritornatomi i sensi a’ luoghi suoi, con speranza tosto di recuperare la sanità del tutto, penso, che mutando aria, diverrò, piacendo a Dio, sano, com’ero prima.
Io mi sto qui in Arezzo in casa; e perche io so ch’egl’è stato scritto al Cardinale, ch’io ero morto, potrete, leggendo questa, fargli fede, ch’io son vivo; tanto più, ch’io ho disegnato una carta, che sarà in compagnia di questa, che la diate a Sua Signoria Reverendissima per fargli reverenzia più che per altro. Il capriccio della invenzione è d’un gentilomo, amico mio, che mi ha in questo male del continuo trattenuto: credo vi piacera. E perché la Signoria Vostra e il Cardinale l’intendiate meglio, dirò qui di sotto il suo significato più brevemente potrò.
Quell’albero che è disegnato nel mezzo della storia è albero della Fortuna, mostrando per le radici, che né in tutto sono sotto terra, né sopra terra. I rami suoi intrigati, e dove puliti e dove pieni di nodi, sono fatti per la Sorte, che spesso seguita; e molte volte nella vita è interrotta. Le sue foglie per esser tutte tonde e lieve sono per la Volubilità. I suoi frutti, come vedete, son mitrie di papi, corone imperiali e reali, cappelli da cardinali, mitrie da vescovi, berrette ducali e marchesali e di conti. Sonvi quelle da preti, così i cappucci da frati, cuffie e veli da monache, come anche celate di soldati e portature diverse per il capo di persone seculari, maschi come femmine.
Sotto all’ombra di quest’albero sono lupi, serpenti, orsi, asini, buoi, pecore, volpe, muli, porci, gatte, civette, allocchi, barbagianni, pappagalli, picchi, cuculi, frusoni, cutrettole, gazzuole, cornacchie, merle, cicale, grilli, farfalle e molti altri animali, come potrete vedere. I quali spettando, che la Fortuna, la quale serrato gl’occhi con una benda, sta in cima all’albero, con una pertica battendo le frutte dell’albero, le fa cadere per sorte in capo a gl’animali, che sotto l’albero stanno in riposo. E cotal volta casca il regno papale in capo a un lupo, e egli con quella natura che ha, vive e amministra la chiesa. Simile in un serpente l’imperio avvelena, strugge e divora i regni e fa disperati tutti i popoli suoi. La corona d’un re casca in capo a un orso e fa quello effetto che la superbia e la furia dell’arrabbiata natura sua. I cappelli da cardinali piovano spesso in capo a gl’asini, i quali non curando virtù nessuna, ignorantemente vivendo, asinescamente si pascano e urtano spesso altrui. Le mitrie da vescovi spesso a’ buoi son destinate, tenendosi più conto d’una servitù e adulazione che di lettere o di chi lo meriterebbe. Cascano le berrette ducali, marchesali e contigiane alle volpi, a’ grifoni, a’ leoni, che né dalla sagacità, né da gli artigli né dalla superbia si può campare da loro.
Cascano similmente cotal volta le berrette da preti in capo alle pecore e a i muli, che l’uno spesso per il nasciere de figliuoli succedono nel luogo del padre, l’altra per la dappocaggine sua vive, perché la mangia. I cappucci, che cascano in capo a’porci di diverse ragioni, frati immersi nella broda e nella lussuria, fanno a lor conventi comunemente le furfanterie, che sapete. I veli e cuffie delle monache cascano in capo alle gatte, che spesso il governo loro è in mano di donne, che hanno poco cervello. De’ soldati cascano le celate in capo a’ picchi e cuculi e pappagalli; e le comuni berrette secolari sono a coprire destinate barbagianni, allocchi, gufi, frusoni e sparvieri, come le acconciature delle femmine investiscano cutrettole, civette e merle, cicale, grilli, parpaglioni e farfalle. Così ogniuno investito della sua dignità, secondo che si trova locato, e che cascando lo va a trovare la sorte delle frutte dell’albero, ha mostro quest’amico mio il suo capriccio alla Signoria Vostra per mezzo del disegno; il quale io vi mando, che ancora che la storia sia profana, m’è parsa tanto capricciosa, che l’ho giudicata degna di lei e perché anco facciate un poco ridere il Cardinale.
In questo mezzo io attenderò a recuperare la sanità e farete intendere a Sua Signoria Reverendissima che io ho mandato la sua lettera al signore Duca Alessandro, il quale mi ha fatto intendere ch’io me ne vadia a Firenze.
Starò qui sino a tutto settembre. Poi al principio di ottobre farò il suo comandamento, e di là saprete l’esser mio giornalmente. Salutate per mia parte gl’amici miei della vostra accademia e basciate le mani al Cardinale per mia parte.
Di Arezzo alli 4 di settembre MDXXXXI

Bibliografia: Bottari-Ticozzi 1822-1825, III, pp. 8-14 (4 settembre 1541); Audin-Passigli 1832-1838, II, pp. 1423-1424 (4 settembre 1541); Milanesi 1878-1885, VIII, pp. 236-238 (4 settembre 1532); Frey 1923, pp. 10-15 (settembre, ottobre 1532).