Numero d'ordine: 81
Data: 24 01 1546
Intestazione: IPPOLITO OLIVETANO IN MILANO A GIORGIO VASARI IN ROMA
Segnatura: ASA, AV, 9 (XLIII), cc. 20-21.
Fonte: Con grandissimo piacer, messer Giorgio mio caro, lessi, quel giorno che mi furono presentate, più di cento volte le vostre lettere, che cotanto e d’allegrezza e di stupor mi colmorono per la nuova poesia, che io vi giuro che da questo e da quella inpedito, più volte non sapevo pigliar principio alla riposta, tal ché io parevo a me medesimo un villan ferrarese, il qual pensatosi (caso, che il Pò s’avanzi sopra li argini,) con un pugno di terra frenar l’orgoglioso fiume, vede da sé non lungi quell’in più parte restar vincitor; per il che pieno di maraviglia e persa ogni speranza di poterglisi opporre, resta nella guisa del bifolco, a cui presso abbia percosso il fulgure, che quetato il romore, tutto maraviglioso mira il pino, privo de’ suoi onori, onde pur dianzi tutto altiero si mostrava a’ riguardanti.
Tale io gran pezza stato, sembrai colui che alquanto nel risolversi stato pensoso, poscia animosamente all’imprese cammina. E così preso partito, cominciai a dettar la presente con dirgli nel principio, che egli mi pare che voi l’abbiate con questi frati, non vi accorgendo che se loro son stati pigri nel mandarmi le vostre, che egli è ciò, la merce vostra, che co’ miracoli del vostro arteficio, or qua e or là pennellandone, togliete loro lo spirito, non che il naturale. Onde poi loro, privi della più bella parte della vita, ci reston per far un’ombra o per aggiunger numero a i loro somiglianti.
Né è burla ciò ch’io vi scrivo, perché certo io posso dir da buon senno, ch’io ho veduto a Bologna de’ vostri ritratti, che viepiù paion vivi di coloro, onde ne gli traeste. Per il che dovete di ciò incolpare il vostro pennello e non loro, ch’hanno in voto d’arrichirvi al trentun per forza. Il che faranno tanto più volentieri ora, che cominciono a star sicuri che da voi non si è loro tolto lo spirito; poiché il mondo, che fino ad ora vi ha scorto per un sugetto solo della pittura, pentito del suo giudicio, si ridice e vi comincia a celebrar per un frate di quei di Parnaso.
Laonde vostro malgrado, vi converrà per vostro onor, seguitando le Muse, lasciar star i frati, e tanto più quanto che tal cosa ormai da per tutto si sa; avengiadio che già gran tempo in Vinegia (forse che fino ad ora il sapete) altro non si stampi che certe cedoloni a contemplazion del mondo, dove è scritto: “Messer Giorgio Aretino nuovo poeta. ” De’ quali egli uno di sua mano ne ha appeso alle spalle d’Atlante, acciò che Febo coricandosi la sera in grembo a Teti, non ingelosisca di voi per la sua laura, vedendo che voi siete divenuto suo servitore.
Gloriatevi adunque; né vi caglia, che Roma così tosto non vi dia quelle lodi che vi son tenute, per ciò che sì il guasto mondo e il poco valore de’ prencipi gl’han tolto insieme con la real maestà il non potersi mostrar grata a coloro, che l’ornano tutto il giorno con le maraviglie del loro ingegno. Non è perciò che non ritenga ancora molto di quella forza che gli diede la vechia età, con la quale pur nella fine si dimostra larga e benigna a chi la serve con pazienzia. E che ciò sia il vero, vedete, che lei non si possendo difender altramente dalle rapine di coloro, che la sacchegiavono, lasciò la cura del suo inpero a Pasquino, che con dir bene di chi fedelmente la serve e male di quegli che la vituperano vedesse di conservargliene, fino a tanto che si maritasse a uno, il quale col suo valore gli rendesse la persa signoria.
Il che se per ancora, avendo i signori volto il capo a gli studi, che voi cantate, non è sortito, non vi vogliate per ciò disperare, ma appagare voi medesimo con la vertù vostra; la quale è tale e sì fatta, che merita de essere gradita da quel grande Ottaviano, la cui presenza orna Firenze, non altramente che si ornasse Roma quella del grande Augusto. Al quale io quindi passando, farò quella riverenza che gli si debbe dalla mia servitù, dove se io vi troverrò, fate pensieri, mettendol a uscita, che io voglio di voi una corpacciata; e poi, se meco ne verrete a San Casciano in sul pian di Val d’Arno, mi farete una machia di quella pianta che debbe uscir del vostro capo per la nostra chiesa.
In fra tanto aspettianci l’un l’altro e raccomandomi a voi medesimo e a quella turba d’uomini da ben che è posta nella coda della vostra lettera. State sano e pregate per me ne vostri paternostri.
Di Milano il dì XXIIII di gennaro nel 1546.
Tuto vostro Don Ippolito.
All’eccellente e raro pittor, messer Giorgio Vasari Aretino in Roma presso Sant’Onofrio.
Bibliografia: Frey 1923, pp. 165-167.