Scheda

Numero d'ordine: 

Data: 28 04 1681

Intestazione: LETTERA DI FILIPPO BALDINUCCI FIORENTINO, ACCADEMICO DELLA CRUSCA, NELLA QUALE RISPONDE AD ALCUNI QUESITI IN MATERIE DI PITTURA

Segnatura: 

Fonte: ALL'ILLUSTRISSIMO E CLARISSIMO SENATORE E MARCHESE VINCENZO CAPPONI LUOGOTENENTE PER LO SERENISSIMO GRANDUCA Dl TOSCANA NELL ACCADEMIA DEL DISEGNO Illustrissimo e clarissimo signor mio Padrone colendissimo. L'alta e nobilissima mente di Vostra Signoria Illustrissima, che non contenta di comprendere in sé quanto di bello e di vago sanno in questo nostro secolo dispensare l'umane lettere, si è fatta così parziale delle belle arti, che ha potuto in carica di Luogotenente per lo Serenissimo Granduca nella nostra Accademia del Disegno col suo patrocinio fare alle medesime godere per lungo corso anni felici; per mostrar, cred'io, quanto possa la benigna volontà d'un animo grande, per risvegliare altrui a più nobili idee o per accendere chi che sia all'acquisto delle virtù, non ha sdegnato sovente d'inchinare se stessa verso gl'ingegni manco eruditi; che però s'è contentata talvolta portarsi alla mia casa, per sentire parte di quel poco che per gloria maggiore dell'arte di pittura, scoltura e architettura ha potuto fin qui partorire la mia povera penna, e di trattenersi alquanto con me in discorsi appropriati a tali facoltà; ma quel ch'è più (tanto ha potuto in Lei la compassione alle mie debolezze) ha voluto che io le ponga in carta i miei sentimenti intorno ad alcune questioni toccanti la materia della pittura, le quali quantunque non vadano attorno ne' volumi degli scrittori, non è per questo che non meritino d'esser proposte e trattate per esser poi da ogn'altro, fuori che da me, decise e terminate. Più bella occasione non si poteva porgere al mio debole intendimento che questa di esercitare in un tempo stesso atti d'obbedienza a chi mi può comandare, e sottomettere all'occhio purgatissimo di Vostra Signoria Illustrissima i proprii errori e forse non ben fondate opinioni, perché in tal modo potrò sperare che Ella col perfettissimo suo gusto e (quando anche ciò le paia) col parere de' suoi cari Accademici e miei compagni, sia per farmi ricredere delle false apprensioni del mio intelletto per dispormi all'ammenda. Ma per non consumare più di quel tempo che io devo impiegare per obbedire, ecco che io vengo al punto. È stata talvolta la materia de' soprammentovati discorsi: 1. se il perito professore dell'arte solamente possa dar retto giudizio delle pitture, o pure anche il dilettante ingegnoso (Avvertasi che questa parola dilettante, che propriamente vuol dire che diletta, da' professori dell'arte del disegno impropriamente è presa per quello che di tal arte si diletta, a distinzione de' professori della medesima, ed è comunemente accettato per termine proprio dell'arte.); 2. se vi sia regola certa per conoscere se una pittura sia copia o originale; e quando ella non vi sia, che modo si debba tenere da chi la vuol giudicare per render alquanto giusta la sentenza; 3. se vi sia regola per affermar con certezza se una bella pittura sia stata fatta dalla mano d'uno o d'un altro maestro, e quando questa pure non vi sia, quale sarà il modo più sicuro di fondare alquanto bene il proprio giu dizio; 4. finalmente di ciò che debba dirsi dell'uso di far copie di belle pitture, e del conto che debba farsi delle medesime copie. E per cominciare dalla prima, si domanda il mio parere, se il perito professore dell'arte solamente possa dare retto giudizio delle pitture, o pure anche il dilettante ingegnoso. Prima di dire quel ch'io senta di questo, è necessario ch'io faccia un'interrogazione a me stesso e dica così: tu che di tali cose prendi a scrivere, dì un poco quale è la figura che tu intendi fare scrivendo. Sei tu forse perito professore o ingegnoso dilettante? A tale interrogazione rispondo io in questa forma: pittore non sono; d'esser dilettante non ardisco affermare, sapendo di qual lega debbono essere i veri dilettanti dell'arti nostre; e certa cosa è ch'io non son punto ingegnoso. Con quanta ragione dunque io possa di tali cose scrivere io non so; ma questo so bene, ch'io son tenuto ad obbedire, e questa è la cagione che mi muove a stender la mano alla penna, senza cercar più là; né pretendo per questo d'esser tenuto da nulla più di quel ch'io mi sia, anzi di buona voglia sottometto tutto ciò ch'io son per dire al parere degli eccellenti professori dell'arte e spero esser compatito, non ostante che fosse per parer loro che i miei detti meritassero appunto quegli applausi, che al parlar d'Alessandro furono fatti da i pestacolori d'Apelle. Ma per procedere con ordine, dico in primo luogo che per perito professore o dilettante io non intendo ogni pittorello o ognuno che per puro capriccio o per un certo suo naturale umore s'impacci volentieri in cose di pittura, perché egli è notissimo che in questo secolo, nel quale i pittori e le pitture son giunte a numero, per così dire, infinito, sonosi altresì tanto moltiplicati, o per meglio dire, alterati i gusti, e sentonsi tuttavia in ciò che a queste arti appartiene, concetti sì nuovi e sì strani, che a gran pena si giunge da chi che sia, che desideri apprenderne i precetti migliori, a ravvisarne non che la luce, il barlume. Alcuni giudicano per ordinario senz'altra ragione che di quello che lor piace o non piace, e talora legando l'affetto col fare d'un maestro che diede loro una volta nell'umore, ogn'altra buona maniera disprezzano; alcuni vogliono nelle pitture scuri profondi, altri caricature smoderate, altri accesi colori, sforzature di membra e simili; ad altri piace un bel tocco di pennello senz'altro più, ed altri finalmente son così ciechi che solamente vanno dietro alle grida, e se non fossi per dire una bassezza, io porterei in proposito di questo ciò che pure m'intervenne una volta con un tale, che voleva che se gli credesse che una certa brutta pittura ch'egli aveva in sua casa, fosse di propria mano d'Andrea del Sarto, mentre egli ne recava per prova la sentenza d'un dottore principale, a cui egli l'aveva fatta vedere. Ciò sia detto per escludere dalla nostra disputa tutti costoro, de' quali io non intendo parlare come di periti o dilettanti, ma d'ogn'altro, che abbia le qualità ch'io dirò nel proseguire il discorso. Mi si fa avanti in sul bel principio quel detto del Quintiliano: Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem, e in termini più stretti quell'altro di Plinio il Giovane: De pictore, sculptore ec fictore, nisi artifex iudicare non potest. Ora s'io volessi, come si suol dire, giurare in verba magistri, sarebbe la disputa bella e finita; e però siami lecito prima di dire qualche cosa di ciò che si potrebbe apportare in contrario. Dice Galeno (De usu partium.) esser la mano un organo che può supplire a tutti gli strumenti; or se il giudicare è parte della ragione, perché non vogliamo noi concedere che questa, che di tanto è superiore alla mano quanto il padrone al servo, possa giudicare di tutte le arti che si fanno colla mano? L'argumento a prima faccia fa una gran mostra, ma egli è troppo superficiale e nel punto nulla stringe. Egli è da sapere ch'e' v'è una gran differenza da quello che i filosofi chiamano disposizione a quello che essi dicono abito. La disposizione all'arte, che si comprende nella ragione inferiore dell'uomo, è quella che lo fa atto e disposto a poter apprendere l'arte, ma non lo rende perito nell'arte. L'abito poi è una qualità molto ferma, che non si perde o si muta senza difficultà. Posto questo, diciamo che l'arte vien definita da' filosofi per un abito intellettivo, o vogliamo dire con altri nel caso nostro, un abito fattivo con vera ragione di quelle cose che non sono necessarie, il principio delle quali non è nelle cose che si fanno, ma in colui che le fa: e l'uomo di buono intendimento e di retta ragione è ben disposto all'arte, ma non si può dire senza l'abito artista; onde è ch'e' non basta la sola ragione per dar giudizio delle nostre arti. Chi, vedendo l'ornato della real cappella di San Lorenzo del Serenissimo Granduca, volesse giudicare il suo inestimabil valore senza sapere l'infinite qualità di pietre che lo compongono, né la loro rarità, né la loro durezza, a cagion della quale vi è tal piccolo lavoro che avrà consumata l'età di più uomini, cose tutte che, per esperienza, son note solamente a' periti di quel magistero, senza dubbio non darebbe nel segno. Così colui che vuol giudicare dell'eccellenza d'una pittura senza aver bene esperimentate le difficultà che portan seco i dintorni negli scorci, l'osservanza delle proporzioni nelle figure, la situazione, l'elezione delle attitudini, la mescolanza de' colori, l'inventare e porre in essecuzione colla mano e, quel che più importa, senza sapere per lungo cimento il posto e apparenza de' muscoli in ogn'una di quelle infinite ed irregolari forme che fan prender loro lo stare, l'alzare, l'abbassare, il tirare delle principali membra, e queste anche in ogni lor veduta, o all'insù o all'ingiù o dai lati, che sono le più terribili difficoltà dell'arte, potrà ben dire: "Mi piace e non mi piace", ma non già dar giudizio del suo pregio. Ma io sento chi mi dice non è egli vero che il fine dell'ottimo pittore è di procacciarsi il grido dell'universale, e allora solamente pare ch'egli più piaccia a se stesso, quando ei crede d'esser giunto ad un segno di piacere a tutti; dunque gli stessi pittori di buona voglia ammettono il contrario del proposto sentimento. Rispondo che né meno questo argumento prova nulla, perché fra quei molti, ai quali si studia di piacere il pittore, sono i dotti nell'arte, i quali dobbiamo credere ch'egli si proponga per ultimo oggetto di sua virtuosa ambizione, e questi son poi coloro che tirano dopo di sé la minuta gente, degli applausi della quale anche gusta l'ottirno artefice per quanto può procedere dal loro intendimento, benché e' sappia che essi non arrivino a penetrare la profondità del saper suo. Il facondo oratore espone i suoi concetti in pubblico, lo sente il semplice contadino e l'uomo letterato; il dicitore (nelle questioni accademiche.) gode delle lodi di tutti, ma non già egualmente, perché il letterato loda secondo la ragion dell'arte, e l'ignorante secondo quello che a lui piace. Multa vident pictores in umoris et in eminentia, quae nos non videmus, confessò Cicerone medesimo; e mi sovviene in tal proposito che Nicomaco il pittore, osservando con ammirazione la tanto celebrata Venere di Zeusi ch'egli dipinse ai Crotoniati, sentì che un certo uomiciattolo da nulla si faceva gran maraviglia del suo stupore, ond'egli fu necessitato a rispondergli: "Non diresti così, se tu avessi i miei occhi". Questo antico concetto con bella grazia accomodò ad altro simil proposito il buon artefice Salvador Rosa, allora che essendogli mostrata una singular pittura da un dilettante, che insiememente in estremo la lodava, egli con uno di quei suoi soliti gesti spiritosi pien di maraviglia esclamò: "Oh, pensa quel che tu diresti, se tu la vedessi cogli occhi di Salvador Rosa!" Concludendo adunque io dico che sarei di parere che fra gran numero di dilettanti potesse ben trovarsi qualche elevatissimo ingegno, che bene instrutto teoricamente nell'arte, molto e molto avesse veduto, il quale anche con poco uso di mano potesse talvolta esser buon giudice di qualche bella o brutta pittura, non però sempre; ma che la regola veramente sia che il perito solamente, cioè colui che per lungo tempo ha camminato per le difficultà di quella, che ha vedute infinite opere d'artefici di prima riga, possa darne un retto e sicuro giudizio; e con tutto l'animo mi sottoscriverei al concetto ingegnoso di moderno autore (Marco Boschino pittore veneziano.), che tal differenza sia dal giudizio che dà sopra una pittura un dilettante a quello che ne dà un eccellente professore, qual è quella che passa fra chi, stando attorno ad una lautissima mensa e scorgendo bene ogni vivanda, senza però poterne gustare, volesse dar giudizio di loro bontà, e chi, stando alla medesima mensa, sentisse mangiando di tutte il sapore. E siamo al secondo dubbio. È gran curiosità fra gli amatori della pittura d'investigare se vi sia regola certa per conoscere se una pittura sia copia o originale; e dandosi il caso che tal regola vi fosse, quale ella sarebbe. Per rispondere al quesito, prima è necessario che noi venghiamo a dare qualche notizia delle universali e particolari difficultadi che s'incontrano dai periti nel voler distinguere le copie dagli originali; dalla spiegazione delle quali difficultadi dipende in gran parte la cognizione se vi sia la tanto desiderata regola. Primieramente bisogna supporre che da copie a copie è gran differenza, perché infiniti sono stati quei maestri che hanno fatto copiare l'opere loro ai giovani per istudio e poi essi medesimi ne hanno ritocche alcune parti, le quali talvolta all'occhio di chi intende si fanno conoscere per ben fatte, onde se il rimanente sarà condotto in modo sopportabile, egli resterà in gran clubbio. Antonio Maria Panico assai pitture diede fuori ritocche dal Caracci suo maestro. Innocenzio Taccone non solo copiò bene l'opere del maestro, ma fece assai quadri col disegno di lui, che ritocchi dal medesimo mandò fuori. Della scuola di Guido Reni uscirono molti quadri ripassati alquanto dal suo pennello, i quali con doppio inganno e della persona di lui e di coloro che ne furono compratori, furono venduti per di tutta sua mano. In quello che io chiamo il secol d'oro della pittura, i tanto rinomati Bassani se ne viveano in quella lor villa dipingendo bellissimi quadri, e quegli stessi facevano copiare e ricopiare ai loro bravissimi giovani, poi davan loro alcuni tocchi con lor pennelli e mandanvangli a vendere alle fiere; onde non è gran fatto ehe un ottimo artefice de' nostri tempi, che ha veduto quasi il più bello d'Europa, affermi che di quadri tenuti di mano de' Bassani e storie replicate è pieno il mondo. Io so da chi lo sa, che Pier Francesco Mola discepolo dell'Albano dipigneva alcuni paesi con grande studio, poi gli faceva copiare ai suoi scolari, gli ritoccava di sua mano, e tali copie mandava in diverse parti. Vedonsene de' discepoli d'Andrea del Sarto, e nel nostro secolo di quegli di Guercino e d'altri molti. Di più quante e quali copie si son vedute per la Lombardia fatte per istudio nel tempo de' lor primi fervori da Anibale e Agostino Caracci, cavate da pitture di Tiziano, del Coreggio e del Parmigiano, gli originali delle quali stetti per dire poteron bene esser più antichi, ma non più belli. Vi sono poi stati uomini di particular talento nel copiare, come Cesare Aretusi ed il nostro Andrea Commodi, che eccellentemente contraffecero l'opere del Coreggio. Quei soli che uscirono della scuola dei Caracci, che impareggiabilmente copiarono l'opere loro, come fu Lucio Massari, furono moltissimi; Guido copiò opere di Raffaello egregiamente, siccome ancora quelle del Caracci suo maestro; e per esemplificare anche nel più antico, è notissimo il caso raccontato dal Vasari nella Vita d'Andrea del Sarto, di quanto occorse intorno alla maravigliosa pittura di Raffaello che oggi si trova nella tribuna della real Galleria del Granduca, dove è ritratto Papa Leone X in mezzo al Cardinale Giulio de' Medici e 'l Cardinale de' Rossi, che per salvarla dagli ordini di Clemente VII che l'aveva destinata in dono a Federigo II, Duca di Mantova, fu da Ottaviano de' Medici fatta ricopiare dal soprannominato Andrea del Sarto, e fu la copia mandata al Duca, appresso al quale, benché vista e rivista da Giulio Romano discepolo dello stesso Raffaello, restò in istima d'originale fintanto che il medesimo Giorgio, che da fanciullo s'era trovato a vederla copiare da Andrea suo maestro, rivedendolo doppo gran tempo in quella città, ogni cosa scoperse. Vi è finalmente un'altra gran difficoltà, e questa è per la parte dell'ottimo perito che debbe dar giudizio se la pittura sia copia o originale; ed è che il pittore di buon gusto nel vedere una copia fatta per eccellenza e scorgere in essa le belle idee che vi appariscono' talvolta vi resta tanto preso, come a me anche hanno affermato valorosi maestri, ch'egli vi trova più bellezza che non v'è; onde per forza dell'affetto con che egli la riguarda, si lascia portare a crederla originale, quando ell'è copia. Le da me sopra dimostrate difficoltà pare che abastanza dichiarino il mio sentimento in tal particulare, cioè che in questi nostri tempi sia anche ad ogni occhio eruditissimo molto difficile l'affermare in certi casi particulari se una pittura sia originale o copia; se poi vi sia regola tanto o quanto accertata e quale ella sia, vediamolo da ciò che segue appresso. Ma prima bisogna fare una distinzione da opere a opere, piacendomi per ora intendere col nome di opere non solo le pitture, ma anche i disegni che i pittori fanno nelle carte, e fino a' primi pensieri o schizzi che vogliamo dire. Se si parla di disegni, e particolarmente de' primi pensieri e schizzi che fa il pittore di capriccio; come che in essi egli dia essere apparente al suo concetto con un solo tirar di penna o di stile, senz'altra manifattura, egli è certo che in questi cessano in gran parte le difficoltà, perché il punto pare che si riduca ad assai meno capi di quel che sia nelle pitture; onde a colui che congiunta ad una buona intelligenza del disegno ha gran pratica nel portamento della penna o dello stile dell'artefice, della macchia e della franchezza del suo tocco, è più facile il dar nel segno; onde vi è più certa la regola, quanto più lontano fu il pericolo dell'essere státi contraffatti, atteso che è difficilissimo a chi che sia l'imitare con franchezza quei velocissimi e sottilissimi tratti in modo che paiano originali, senza mancare né punto né poco alle parti del buon disegno; in quella guisa appunto che a chi velocemente va dietro.a colui che cammina sopra la polvere, puot'esser possibile per qualche pezzo di via il porre il piede nell'orme di lui, ma non già a lungo andare farlo sì bene che le prime vestigia non prendano altra forma da quella che a proprio suo talento e senza legarsi ad imitazione stampò colui che fu il primo a correre. Nulladimeno anche questi disegni son soggetti ai loro pericoli e mettono in pensiero il perito che di loro vuol dar giudizio; e una delle cagioni si è perché fra gl'infiniti disegnatori che ha avuto il mondo a questo nostro tempo, non sono mancati alcuni dotati di tanta franchezza che, ponendosi a bello studio a contraffare disegni di valentuomini, hanno falsificati gli originali e ingannati molti; di che posso io esser testimonio per quel solo che si operò nel tempo che si fece la celebre raccolta de' disegni dalla gloriosa memoria del Serenissimo Cardinale Leopoldo, alla quale poi senza sdegnare l'opera mia ha il Serenissimo Granduca Cosimo nostro signore dato sì bel compimento, dico per le molte carte che convenne a quell'Altezza di reprovare a titolo di falsità. Questa universal regola della maggiore o minore franchezza nell'operare, ha luogo ancora nelle cose colorite; ma con questa differenza, che là dove ne' disegni, conosciuta essa ed il modo di macchiare e portar la penna o lo stile del supposto maestro e la correzion del disegno, par che sia terminata ogni difficoltà; nelle pitture non è così, perché l'osservazione di quel maestrevole ardire si ricerca non solo nella franchezza e sicurezza del dintorno, ma nell'impastar de' colori, nel posar le tinte, ne' tocchi, ne' ritocchi, nel colorito, e molto più in certi colpi che noi diremmo disprezzati e quasi gettati a caso, particularmente nel panneggiare, i quali veduti in dovuta distanza fanno conoscere in un tempo stesso e l'intenzione del pittore ed una maravigliosa imitazione del vero, cosa che nelle copie rare volte si vede, se non v'è qualche tocco del maestro. Dico dunque che tali osservazioni sono le regole ordinarie delle quali si vagliono i periti per giudicare se le pitture siano originali o copie; e perché anche nelle cose umane è necessaria la fede, soggiungerei che allora potesse quietarsi chi che sia, quando dell'avere o non avere la pittura le qualità predette venisse accertato da chi bene le sa conoscere, ma il male si è che pochi son quegli che vogliano in casa loro e sopra i quadri ch'e' posseggono una così sottile esamina, anzi molti, che hanno pitture che per sentenza di lor cervello chiamano originali, volontariamente s'ingannano e molto rincrescerebbe loro l'essere disingannati; che però con una certa ostinata fermezza nel loro parere amano anzi d'esser tenuti goffi che poco intelligenti. E passiamo al terzo quesito. Uno de' più insopportabili e anche più praticati errori che pervertiscano il senso de' curiosi amatori dell'arti nostre è il ricercare con industria le pitture de' gran maestri, non già per impacciarsi col meglio, ma solo perch'elle uscirono dai lor pennelli, ed ha per ordinario la sua radice nell'ignoranza, mercé che non avendo questi tali occhi bastanti a saper dar giudizio del buono e volendo pure dar sentenza, si gettano a spacciare il nome del maestro. Dunque fa di mestieri pure una volta correggere alquanto la falsa apprensione di costoro prima di rispondere alla cosa domandata, cioè: se vi sia regola per affermare con certezza se una bella pittura sia stata fatta dalla mano d'uno o d'un altro maestro; e quando questa pure non vi sia, qual sarà il modo più sicuro di fondare alquanto bene il proprio giudizio. Non ha dubbio alcuno che, siccome chi va in cerca di fiori, non ricorre ai roghi ed all'ortiche (non già che punto egli curi di cogliergli nel giardino del re o in quello d'un privato, purché e' sieno belli e odorosi), così chi vuol far procaccio d'ottime pitture, dee far ricorso alle maniere de' gran maestri, che sono per ordinario l'officine in cui tal mercanzia si spaccia; ma non ha da stare in ciò così legato come se fuor di quelle che uscirono dai lor pennelli non se ne trovassero tali, e pure essi talvolta non ne avessero fatte alcune poco degne d'essere ricercate. Gli occhi e non gli orecchi deon chiamarsi a consiglio per dar giudizio delle buone pitture e nel far di loro elezione. Che importa a me il sapere di certo per attestato di tutto il mondo che una pittura sia stata fatta per mano di questo o di quell'altro rinomatissimo artefice, s'ella non mi piace, e non è da piacere? Molto si rise un nostro poeta fiorentino degl'ingegni de' suoi tempi, allora che avendo egli composto un sonetto in bello stile e datolo fuora per composizione dell'eruditissima Marchesa di Pescara, in un momento se ne sparsero per la città più di cento copie, cosa che egli non avrebbe potuta giammai aspettare del più nobil componimenio ch'egli avesse fatto vedere per suo, ond'egli in un'altra composizione fatta in tal proposito accomodò quel proverbio: che non più il vin, ma beonsi i paesi. Hanno elleno forse le mani, i pennelli, i colori, le tele de' maestri rinomati una tal virtù che basti a far miracoli, onde null'altro abbisogni a chi l'ha, per poter dire di possedere un tesoro, che il sapere ch'elle uscirono dalle lor mani? No per certo, onde bisogna pure in fine, o vogliamo o no, tornare ad un principio, che tanto è preziosa una pittura, quanto ell'è bella e ridotta in ogni sua parte a quell'eccellenza, alla quale ha per fine di portarla l'ottimo artista colla mano che obbedisce all'intelletto. I grappoli dell'uva di Zeusi non ingannarono gli uccelli fino al segno di fargli calare a cibarsene, perché furon parto della mano di Zeusi, ma perché s'assomigliavano al vero; né la tanto rinomata tela di Parrasio ingannò lo stesso Zeusi, perché di mano di Parrasio, ma perché né punto né poco si distingueva s'ell'era vera o finta. Ma che è più ( se fu vero quanto lasciarono scritto antichi autori), lo stesso Zeusi avendo dipinto in mano ad un fanciullo altri grappoli, a' quali pure volarono gli uccelli, forte si adirò con se stesso e diede, come noi diremmo oggi, di mestica al quadro, perché, diss'egli, s'io avessi dipinto bene il fanciullo siccome l'uva, gli uccelli ne averebbono avuto paura e non sarebbero corsi a' grappoli. L'uva e 'l fanciullo eran di mano di Zeusi e non di meno l'uva poté ingannare e non il fanciullo; ora, o fosse questa verità o favola, non è vero che un gran maestro sia in ogni sua opera sempre simile a se stesso, e per conseguenza è cosa vana il confondersi tanto nel ricercare del nome del pittore più che della perfezione della pittura. Volendo ora rispondere al quesito, e facendomi al mio solito dalle difficoltà che si possono incontrare nel dar giudizio se una pittura sia di mano d'uno o d'un altro maestro, dico in primo luogo che in quel fortunato secolo nel quale fiorirono i più celebri pittori, ognuno che desiderava farsi eccellente nell'arte cercava di seguitar costoro, e non era del tutto impossibile l'imitare il colorito, il modo d'arieggiare nelle teste, l'invenzione, il panneggiare e simili, benché in ciascuna di queste cose non si scorgesse un così buon disegno e nel tutto non comparisse un'eguale franchezza, ciò che ben si conobbe fra gli altri molti in Benedetto Caliari fratello del Veronese ed in Carletto figliuolo dello stesso, i quali tutii operarono con Paolo; nell'opere de' quali, benché non si riconoscesse tanta grazia e vaghezza, non fu per questo che fosse reputata cosa da ogni pupilla il conoscere la differenza da queste a quelle dello stesso Paolo; difficoltà che si prova ogni giorno fino al presente da chi non ha occhio perfettamente erudito, e non solo per ragione dell'imitazione delle maniere, ma perché a tali pitture ha cagionato il tempo una certa pelle, o patena che noi vogliamo chiamarla, che le rende maravigliosamente accordate ed al primo incontro molto s'impossessa dell'animo de' riguardanti. Secondariamente si consideri che i pittori di gran nome in tanto hanno acquistata fama, in quanto egli hanno egregiamente operato, ch'è lo stesso che il dire che essi furon prima grandi nell'operare e poi nel nome, e per ordinario l'opere che diedero loro il grido furono quelle che fecero o poco prima o poco dopo l'essere usciti dalla scuola del maestro, cioè in quel tempo che e' si chiamavano discepoli, ma veramente erano gran maestri. E mi sovviene a questo proposito che Michelagnolo nella scuola del Grillandaio già disegnava sì profondamente che ritoccò un disegno del proprio maestro così bene, che poi tornandogli sotto l'occhio lo stesso disegno circa a 50 anni dopo, egli ebbe a dire che meglio sapeva di quell'arte in fanciullezza che allora ch'egli era già vecchio. So ancora che alcune opere di Raffaello fatte nella scuola del Perugino furono stimate le migliori pitture che fossero state fatte fino a quel tempo. Le prime opere che espose al pubblico in sua giovenile età il Tintoretto, meritarono gli applausi di tutta la città di Venezia e anche dello stesso Tiziano. Ma che sto io a cercare esempli tanto antichi, se noi aviamo vedute nel nostro secolo alcune delle prime opere di Domenichino, che hanno pareggiato in bontà quelle de' Caracci ? e quel ch'io dico di lui, dico anche di altri giovani, a' quali per allora non seppe dare la gente, che va più a seconda dell'apparenza che della sustanza, altro titolo che di giovani di buona aspettazione, ma le stesse lor pitture vedute poi in altri tempi, senza sapersi che furon fatte in gioventù, furono riputate delle migliori che e' facessero mai, anche nell'età più matura. Questa dunque è una gran difficoltà che si puote incontrare nel voler giudicare se una pittura sia di tale o tal maestro, mentre noi vediamo che molti, seguendo il modo di fare di altri di maggior nome, hanno fatte opere in gioventù, che per bontà e per modo poteano esser credute di mano degli stessi loro maestri, o di chi essi imitavano. Ma che diremo noi di quel che avvenne nel secolo dei Bellini di quei sette pittori, Marco Basaiti, Benedetto Diana, Giovanni Buonconsigli, Lazzero Silvestrini, Cristofano Parmese, Vittore Belliniano, Girolamo Santacroce, ed altri ancora, i quali tutti operarono con sì poca differenza di maniera fra di loro, che difficilmente l'una dall'altra si saria potuta conoscere, se non fosse stata usanza de' medesimi maestri, seguendo il costume di quell'età, di scrivere in ogn'opera il proprio nome? Vi è anche un'altra gran dilfficoltà ed è questa: che molti gran pittori hanno operato di diverse maniere, e molti ancora talvolta con diverso gusto da quello che in altri tempi eran soliti di fare, cosa che ha ingannato molti. A cagione dunque delle accennate difficoltà, io son di parere che sia assolutamente impossibile ne' tempi nostri il dar sempre sentenza certa se una pittura sia di mano d'un tale maestro o no, se oltre al testimonio di sua bontà ella non ha di quei riscontri che regolarmente, e secondo il comun consenso degli uomini, si hanno per indubitati, come son tante e tante possedute dal Serenissimo Granduca e da altri gran potentati in Italia e fuori, e anche da molti privati, le quali fin da que' tempi ch'elle furon fatte, andarono per le penne degli scrittori e vanno tuttavia, o per continova permanenza in luogo hanno per antica tradizione ottenuto il consenso dell'universale; onde è che in ciò che appartiene all'umana apprensione, gran benefizio fanno a tali pitture coloro che di tali materie scrivono, in far memoria de' loro trasporti da uno ad un altro luogo, e chi le possiede non dee così di leggieri spogliarsene. Ma giacché una sì fatta regola tanto certa e sicura a mio parere non puote assegnarsi, dirò per ultimo alcuna cosa intorno a quello che debbe aversi in considerazione per dar giudizio delle maniere de' pittori, ed il meglio con che si può assicurare il proprio parere; ma prima vediamo che cosa voglia dire questa parola maniera. Maniera a mio giudizio, e secondo ciò ch'io mi ricordo avere scritto nel mio Vocabolario del Disegno, vuol dire guisa, forma d'operare. E da' pittori, scultori e architetti intendesi per quel modo che regolarmente tiene in particolare qualsivoglia artefice nell'operar suo; onde rendesi assai difficile il trovare un'opera d'un maestro, tutto che diversa da altra dello stesso, che non dia alcun segno nella maniera di esser di sua mano e non d'altri, il che porta per necessità ancora ne' maestri singularissimi una non so qual lontananza dall'intera imitazione del vero e naturale, che è tanta, quanto è quello che essi colla maniera vi pongono del proprio. Da questa radical parola maniera ne viene ammanierato, che dicesi di quell'opere nelle quali l'artefice, discostandosi molto dal vero, tutto tira al proprio modo di fare, tanto nelle figure umane, quanto negli animali, nelle piante, ne' paesi ed altre cose, le quali in tal caso potranno bene apparire facilmente e francamente fatte, ma non saranno mai buone pitture, sculture e architetture, né averanno fra di loro intera varietà; ed è vizio questo tanto universale, che abbraccia, ove più ove meno, la maggior parte o quasi tutti gli artefici. Egli è dunque necessario che chi vuol farsi giudice delle maniere de' pittori, abbia vedute tante e tante pitture del maestro di cui egli vuol giudicare la pittura, che gli sia ben rimasto impresso nella mente tutto il suo fare, né basterebbe a chi volesse esemplificare nel nostro caso la similitudine del carattere, il quale da ognuno si forma in un modo, ch'è proprio suo, e però è sempre in qualche cosa diverso da quello d'ogn'altro, onde ben si riconosce da colui che ha in pratica i particolari scritti, la ragione è, perché nel carattere ci potiamo valere del confronto con altro carattere della siessa mano parola con parola e lettera con lettera, ma nella pittura non è così, conciossiacosaché ogni opera, ogni parte di essa, se però non è una copia, sempre è diversa dall'altre; siccome anche diversi furono i naturali, l'idee del pittore, le vedute delle figure e de]le parti di esse. Osservi dunque il perito quei modi d'operare, che furono più familiari e quasi del tutto abituali del pittore, come per esempio, alcuni posarono il color vergine senza confondere l'uno coll'altro, cosa che ben si riconosce nel secolo di Tiziano. Altri l'hanno maneggiato tutto al contrario, come il Coreggio, il quale posò le sue maravigliose tinte in modo che, senza conoscervisi lo stento, le fece apparire fatte coll'alito, morbide, sfumate, senza crudezza di dintorni, e con un tal rilievo, che per così dire arriva al naturale. Il Palma Vecchio e Lorenzo Lotto hanno posato il color fresco e finite l'opere loro quanto Giovanni Bellini; ma l'hanno accresciute e caricate di dintorni e di morbidezza in sul gusto di Tiziano e di Giorgione. Altri, come il Tintoretto, nel posare il colore così vergine come gli antedetti, han proceduto con un ardire tanto grande, che ha del prodigioso. Altri, come Paolo Veronese, hanno posato il color vergine freschissimo, dico con una freschezza che è quasi tutta lor propria, aggiunta ad una mirabile facilità, la quale è ben conosciuta dall'occhio erudito. Nel Bassano si veggon colpi sì franchi, e come noi dicevamo sì disprezzati, e concludenti insieme la sua intenzione, che nulla più. Ma dopo aver noi parlato de' modi di posare i colori, noi non siamo ancora a nulla. Tutti questi pittori hanno avuta fra di lóro qualche diversità nel colorito, nell'arieggiar delle teste, nel panneggiare ed in far capelli, perché queste qualità di cose dependono da certe minutezze di particularissimo gusto; onde accaderà che dieci pittori facciano talvolta un ritratto d'un giovane, e che ciascheduno, ritraendo i medesimi capelli e i medesimi panni, gli faccia con diversa morbidezza o durezza da quella d'ogn'altro, cioè in tutto e per tutto secondo la propria maniera. Nelle barbe chi ha usata la macchia e chi l'ha alquanto profilate: di queste rare volte o non mai si vedono nell'opere di Tiziano, Bassano e Tintoretto, ma scorgesi una bella macchia, come anche in quelle del Veronese. Se noi vogliam parlare de' più antichi di costoro e di qualche particolarità usata da alcuni, la quale, mentre all'opera non manchino l'altre buone parti, puote osservare il perito, diciamo, per esempio, di Giovanni Bellini, il quale in quella sua antica maniera per lo più si dilettò di far figure alquanto minori del naturale e le posò mirabilmente in sul piano, perché e' fu buon prospettivo e sempre dipinse cose divote e sante, fece belle acconciature e finì l'opere sue (benché con secchezza) fino all'ultimo segno. Gentile suo fratello, Vittore Carpaccio e Giovan Batista Cima da Conegliano seguitarono quella maniera e l'ultimo ebbe per suo ordinario costume il dipignere in tutte le sue pitture Conegliano sua patria. Il Civetta, oltre all'aver sempre dipinte cose chimeriche e mostruose, fece sempre in ogni suo quadro una civetta. Giorgione primo ritrovatore dell'ottima maniera veneta per ordinario dipinse cose maestose e gravi, ornò le sue figure con berrette e pennacchiere bizzarre, abiti trinciati all'antica e maravigliose armadure; ma questi son tutti segnali, com'io diceva, che aiutano tanto quanto a dar giudizio del maestro che dipinse, ma sempre però col supposto che la bontà dell'opera e l'altre sode qualità della medesima procedano con eguale connessione. Tutte queste cose dunque, con altre simiglianti, potrà a mio credere avere in mente il perito nel formare il suo giudizio e sopra tutto, a fine di non ;ngannare altri con sua sentenza, contentisi per mio consiglio d'esporre se medesimo ad evidente pericolo d'inganno; voglio dire che, quantunque ei sappia esser verissimo che ogni artefice anche eccellente abbia potuto errare e talvolta anche abbia errato, contuttociò diasi egli a credere il contrario, e allora che se gli presenterà una pittura, che r;tenendo altri buoni requisiti, abbia in sé alcuno evidente e incomportabile errore non solito di quell'artefice di cui si vuol la pittura, inclini a crederla d'ogn'altro fuor che di lui, perché il buono in tanto dee stimarsi in quanto egli è buono, e 'l bello in quanto egli è bello, e tanto basti intorno al terzo capo. Vediamo per ultimo quello che debba dirsi dell'uso di far copie delle belle pitture, e del conto che debba farsi delle medesime copie. Sentesi del continovo fra la gente un gran susurro contro le copie. Ognuno ha in bocca quel di Dante Non ragionar di lor, ma guarda e passa e par quasi che quelle, senza punto considerarvi sopra, debbansi togliere dagli occhi degli uomini e, come velenose o pestilenti, cacciar d'ogni luogo; e pure se con ragionevole occhio riguarderassi, si troverà ch'elle furono in ogni tempo usate e cercate, e quel ch'è più, ch'elle furon sempre all'arte medesima stimate utili e senza alcun dubbio necessarie. Che l'uso delle copie dell'ottime pitture fosse fino negli antichissimi tempi, non può controvertersi, essendo di questa verità piene le carte; ed oltre a quanto intorno a ciò allegar si potrebbe, bastici quello che lasciò scritto Luciano, dico della copia di quella maravigliosa tavola de' Centauri fatta per mano di Zeusi, veduta da lui in Atene, che vi aveva lasciata Silla nell'inviar ch'ei fece a Roma l'originale, il quale insieme con altre nobilissime pitture di quel grand'ariefice fece miserabil naufragio. E quello ancora che Quintiliano afferma (Lib. XII, 10, 5), ed è: che nel tempo di Parrasio non si vedevano, per così dire, altre immagini degli dei e degli eroi, che quelle che erano state ricopiate dagli originali di tal maestro; il che quanto fosse vero aviamo per testimonianza dell'arte della scultura negli infiniti marmi che fino a' di nostri si veggono da per tutto intagliati negli anni antichi per rappresentar l'effigie degli eroi, tratte da altre simili irnagini a maraviglia espresse dagli ottimi scultori di quell'età. Ma lasciando gli esempli profani, non bastò ne' primi secoli della cattolica religione alla cristiana pietà che l'Evangelista San Luca, siccome aviamo per antica tradizione, avesse fatte di sua mano alcune imagini in pittura di Gesù Cristo figliuol di Dio e della Beata Vergine sua madre, che subito se ne sparsero per l'Asia, Africa, Italia, Francia, Spagna ed altre provincie, dove fu portato il nome cristiano, copie infinite. Ma per non perder più tempo in ciò che alle nostre arti poco rilieva, che è la maggiore o minore antichità di quest'uso di far copie, passiamo all'altra mia asserzione, cioè che queste furon sempre alle medesime arti di molta utilità e necessarie, per venir poi a dire del concetto che debba aversi di loro. Or prima io suppongo non esservi chi dubiti che, quando noi diciamo questa parola copia, noi non intendiamo di parlare d'ogni straccio di tela, o pezzo di tavola, che per immitare qualche bella pittura, abbia più tosto imbrattato che dipinto qualche fanciullo o principiante; perché è noto che, non essendo il copiare altro che imitare colla propria tutto ciò che altri fece colla sua mano, quelle copie che non conseguiranno perfettamente il fine per lo quale furon fatte, non doveranno aver luogo in questa disputa. Di quelle adunque si parla, che sono eccellenti o almeno che hanno in sé tanto del buono, che in sul bel principio dell'esser riguardate incominciano a darci diletto per sola forza dell'immitazione, la quale tanto puote in noi, che talvolta ci fa sentire con gusto contraffare la voce di taluno, il cui parlare, uscito dall'organo proprio suo, molto ci annoierebbe. Ora è da sapersi che gli artefici di sublimissimo gusto sono stati pochi e che per conseguenza, considerata l'infinità de' luoghi dove l'arte s'estende e si stima, poche sono state le loro pitture. In oltre tengasi per certo che molte loro opere movibili o non sono state tolte di luogo, o pure sono state mandate in paesi diversi, dove nelle più rinomate gallerie de' grandi sono state racchiuse, e molte ancora per essere state fatte a fresco sopra i muri non hanno potuto far pompa di sé che in quei luoghi ove elle furon lavorate; e non è chi non sappia che la perfezione dell'operare in pittura non si ferma nella sola eccellenza del disegno o bontà del colorito, ma nelle disposizioni delle figure e nobilissime idee che forma nella mente sua l'ottimo artefice, superiori a quelle di ogn'altro o principiante o maestro di non così alto valore. Tali cose dunque supposte, io dico che le copie delle buone pitture furon sempre e saranno alle arti nostre necessarissime, perché essendo stati, com'io diceva, pochi i pittori eccellenti, e poche per conseguenza le lor pitture, e quelle o nascose o annesse alle muraglie ed essendo dotate di tante belle parti necessarie ad ogni artefice per imparar tutto quello che non così presto e facilmente si puote apprendere col solo studio delle figure al naturale: è pur necessario ch'e' vi sia modo da render possibile a benefizio degli studiosi la per altro impossibile comunicazione per tutto il mondo e ad ogni persona di sì dotti esemplari, il che non può farsi se non colle buone copie; e ch'e' sia vero che non basti per ordinario agli studiosi di pittura l'affaticarsi sopra 'l naturale per arrivare con prestezza e facilità all'ultimo dell'eccellenza, senza la scorta dell'opere de' gran maestri, nelle quali si scorgono vinte e superate grandissime difficoltà dell'arte, riconoscasi da questo esempio fra i molti che potrebbero addursi. Dopo il rinascimento della pittura per lo spazio di cento anni almeno da che fiorì Cimabue e Giotto, sino a che incominciò ad operare il celebre Masaccio, usarono quei pittori di studiare il naturale, e contuttociò non arrivarono mai ad intendere il posar delle figure in piano, onde tutti chi più e chi meno le facevano in punta di piedi; ma subito che il nominato Masaccio n'ebbe bene inteso lo scorcio in prospettiva e ritrovato il dintorno, ogni pittorello del suo tempo si liberò da tale bruttura; e così ciò che era costato a tutti i pittori insieme lo studio di più d'un secolo, in un momento si rese praticabile, anzi familiarissimo. Quel che noi diciamo della più o meno propria intelligenza del disegno, intendiamo eziandio di tutte l'altre parti della pittura, perché è verissimo quel tanto usato proverbio, che non uni dat cuncta Deus. Volendone poi discorrere secondo la pratica, noi sappiamo che nella scuola del gran Raffaello, che tanto di buono in esse inventò e scoperse, stavano moltissimi giovani e anche buoni maestri italiani e oltramontani, i quali del continovo copiavano sue opere, e le copie, come gioie rarissime, eran mandate per tutta l'Europa, fino agli ultimi confini della quale, mediante le medesime, in un subito raggi di nuova luce si sparsero in queste belle arti. Ma in confermazione del mio detto io non vo' lasciare di portare in questo luogo e in tal proposito una mia reflessione fatta più volte ad un alto concetto della Divina Provvidenza, che di tutto ha cura. Appena l'arte del disegno, stata per molti secoli sino ai tempi dei nominati Cimabue e Giotto, se non morta, almeno malviva, per le mani del soprannominato Masaccio nella pittura, di Donatello nella scultura, e di Filippo Brunelleschi nell'architettura, tutti artefici fiorentini e coetanei, ebbe dati fuora i primi splendori di quella perfezione, alla quale fra il 1400 e 'l 1460 fra Filippo e Antonio Pollaiolo in Firenze e Giovanni Bellini in Venezia e Pietro in Perugia, la collocarono, per dover ella poi giugnere a quel pregiatissimo stato, nella quale la pose l'eccellentissimo Michelagnolo; volle Iddio che avesse principio pure in Firenze il bello uso ed arte dell'intagliare per la stampa, prima da Maso Finiguerra, che quasi a caso ne scoperse i bagliori, poi da Baccio Baldini orefice, poi dal nominato Antonio del Pollaiolo, migliorato dal Mantegna in Roma, e poi da Buonmartino e dai grand'uomini della Germania ridotto a perfezione, come io mostrerò altrove. E perché questo? dico io non per altro, a mio credere, se non perché alle nostre arti ne venisse subito il gran bene che ci ha insegnato l'esperienza aver le medesime conseguito, mediante l'infinite copie che può gettare una stampa delle belle idee dei grandi artefici e dei lor mirabili componimenti. Anzi dirò più, che sonosi avute per così necessarie le buone copie agli studiosi, che non potendosi quelle così comodamente usare nelle sculture, non prima fu quell'arte ancora insieme colla pittura di nuovo portata alla sua perfezione, che fu posto in uso il formar rilievi, gettando le statue di gesso per tramandarsi in varie parti, e si ha da buono autore, come testimonio di veduta, che delle statue così gettate del Laocoonte, dell'Ercole e dell'Apollo, e dipoi di molte di quelle di Michelagnolo, si riempirono, per così dire, in un subito Milano, Genova, Venezia, Parma, Bologna, Firenze, Parigi, ed altre molte città desiderose di quegli studi, acciocché facessero ufficio di tante copie tratte da quegli animati marmi. È anche cosa notissima che il celebre pittore Tintoretto empì di queste tali statue di gesso, formate sopra gli originali, il proprio studio, fra le quali ne furono alcune modellate dal Crepuscolo e dall'Aurora di Michelagnolo. E non sappiamo noi, che nel presente secolo Pietro Paolo Rubens aveva al suo ritorno in Fiandra portato con sé bellissime statue di marmo, e da Roma s'aveva fatte condurre medaglie, cammei, intagli ed altre cose singularissime, le quali in una stanza con un solo occhio in cima, a similitudine della Rotonda di Roma fatta fabbricare in Anversa, le collocò? (Bellori nella Vita del Rubens.) Ed avendo poi venduto tutto il suo studio al Duca di Buchingam centomila fiorini, per non perdere le specie di quelle mirabili opere, formò tutte le statue di gesso e le ripose ne' luoghi degli originali. Io stesso ho conosciuto un celebre artefice che, avendo disegnato in gioventù le mirabili pitture del Coreggio fatte a Parma ed altrove, di quelle stesse carte disegnate coperse la muraglia di sua stanza, a fine che quelle copie gli mantenessero vivo il singular gusto di quel grand'uomo e gli aprissero la mente ad altri nobil; e nuovi pensieri. Ho anche conosciuto altri che a gran costo hanno fatto procaccio di un'infinità di buone carte stampate, facendosele spesso passare sotto l'occhio per lo medesimo fine. Ma che è più, noi sappiamo che l'Albano, il Guercino e Pietro da Cortona avevano le loro stanze e gabinetti a posta, dove tenevan copie di pitture di gran maestri, e talora anche fatte da giovani di poca pratica. Anzi lo stesso Cortona bene spesso guardava e riguardava alcune carte stampate di cattivo intaglio con disegni della Colonna Traiana fatti da Giulio Romano, e solea dire che questi gli facevan tornare in memoria quel che egli aveva disegnato in gioventù, e mantenevangli il gusto di quel maraviglioso modo d'operare. In somma bisogna dire che, siccome sarebbe goffo colui, il quale pretendesse diventare un gran poeta senza aver mai letti i libri de' buon poeti e senza trattenersi sovente con sì fatta lettura, così dovrebbesi stimar forsennato chi si promettesse di poter giugnere a grado d'eccellenza nelle nostre arti, senza aver osservati o negli originali o nelle copie i concetti dei grandi artefici; onde è che non solo non debba aversi per soverchia una sì fatta usanza di far copie dell'opere perfette de' grandi artefici, ma debbansi quelle molto pregiare per lo fine almeno del moltiplicare e propagare che fanno esse copie a comun benefizio per tutto il mondo il più bello. E sono al fne del mio discorso, il quale, com'io dissi a principio, si presenta avanti alla bontà e valore di Vostra Signoria Illustrissima per ricevere la necessaria e desiderata correzione, mentre io resto di Vostra Signoria illustrissima e clarissima devotissimo ed obbligatissimo servitore Filippo Baldinucci

Bibliografia: F. Baldinucci, Lettera al Marchese Capponi..., Roma, Tinassi, 1681; Firenze 1687, Raccolta di vari opuscoli sopra varia materia di pittura, scultura e architettura, Firenze 1765, pp. 1-24; Prose Fiorentine raccolte dallo Smarrito [C. R. DATI], Venezia 1751, VI, 1, pp. 162-182; F. Baldinucci, Delle notizie de' professori del disegno..., Firenze 1767-1774, XXI, pp. 3-35; Opere di Filippo Baldinucci, Milano 1808-1812, XIV, pp. 323-359; BAROCCHI 1975, pp. 461- 485.

Note: