Numero d'ordine:
Data: 27 02 1682
Intestazione: LA VEGLIA DIALOGO DI SINCERO VERI
Segnatura:
Fonte: Che l'uomo sia animale sociale è assioma assai risaputo e da tutti approvato. Non è dunque maraviglia se 'l conversare dell'uomo coll'altro uomo e talvolta di molti uomini con altri molti, sia riposto fra le più necessarie, più utili, e bene spesso fra le più dilettevoli cose. Fannosi tuttavia congressi e raddotti di molti insieme ad oggetti diversi e con varie intenzioni: tali sono per parlamentare o vogliamo dire contribuire a vicenda varie sentenze e pareri in pro del pubblico e privato governo; talora per rendere quanto più comume, tanto più giocondo ed anche più solenne alcuno spettacolo o bella rappresentazione; e bene spesso ancora fannosi per puro fine d'arricchire il nostro intelletto: e questi sono di coloro che negli studii più rinomati e nelle più ragguardevoli università o accademie insieme uniti per certo determinato tempo stannosi cheti e tutti intenti al ragionare d'un solo ben perito professore o maestro d'alcuna arte o scienza, poi col reciproco contribuire delle ascoltate e conosciute veritadi alcuna apprendere ne procacciano. Onde è che, sciolti i congressi, partonsi i medesimi bene instrutti ed ammaestrati, e per cotal via più ricca ne diventa ogni dì la repubblica delle medesime scienze ed arti. Né gran fatto dissimili, per lo conseguimento dello stesso fine, stimo io alcune piecole ragunanze, che da uomini nobili e erudite persone fannosi tuttavia per solo diporto e ricreazione anche nelle pubbliche librerie e altre officine, nelle quali o belle notizie di ciò che alla giornata espone a nostra luce l'umana conversazione, che degno sia di racconto, vicendevolmente comunicandosi, o altro utile e virtuoso ragionamento eccitandosi, vengono poi i congregati, mediante tale ozio lodevole e per opera, stetti per dire, de' passatempi stessi, a riportare maggior profitto che fatto non averebbero per lunga lettura. Sonovi i pubblici raddotti della più fiorita nobiltà e delle più civili persone, dove fra giuochi non viziosi e discorsi ameni quella gravezza si toglie dalle menti, che le cure del pubblico o privato governo sogliono talora apportare. Evvi poi fra l'altre molte un'altra sorta di congressi, ed è quella di coloro de' quali parlò quel nostro bizzarro poeta nel quinto e sesto verso di quella sua ottava, allor che disse: Era quel tempo là, quando i geloni tornano a chiuder l'osterie de' cani, e talun, che si spaccia i millioni, manda al presto il tabi pe' panni lani, ed era l'ora appunto che i crocchioni si calano all'assedio de' caldani... Lippi, Malm. racquist, III 3. Quegli dunque sono i congressi de' crocchioni, a' quali molto avvedutamente il poeta, seguendo anche la voce universale, diede tal nome, perehé la parola crocchione viene dal verbo crocchiare, che propriamente dicesi in nostra lingua a quello strepitare sconcertato e roco inrilevante e del tutto spiacevole all'orecchio nostro, che risulta dal percuotimento di canna, vaso o altra cosa che sia mal congiunta in se stessa o che abbia in sé alcuna separazione del continovo. Da questa voce crocchiare, per similitudine si dice crocchione, cioè, che è solito di crocchiare; ed è di coloro, che io non chiamerei uomini saldi, ma sì bene in molte parte fessi, conciossiacosaché male abbiano unita in se medesimi la cognizione de' proprii difetti con quella degli altrui, il desiderio dell'apprendere colla prudenza nel ricercare, la voglia del molto dire colla capacità dell'intendere e colla dovuta avvertenza nel pubblicare; ond'è che al primo percuotere d'una parola detta da chi che sia, facendo gran fascio e del buono e del cattivo, e del certo e del dubbioso, e del male investigato e peggio inteso, e talora dello inventato a capriccio, quello fannosi lecito di dar fuori nelle conversazioni, con discorsi senza capo e senza coda, che poco o nulla dilettano chi ha senno: onde più s'assomigliano allo strepitar noioso di cosa che crocchia, che allo aggradevol suono che fanno all'orecchio nostro le parole di chi saggiamente ragiona. Io per me darei a sì fatti congressi il nome d'accademie fatte a posta per confonder la verità d'ogni cosa e là dove degli altrui fatti si muova ragionamento per eccitar liti, dissensioni e scandoli fra gli amici e parenti, egualmente [ch]e fra gli estranei e fra i nemici; e se di cose appartenenti alle scienze ed all'arti, o agli scienziati o agli artefici, per intorbidare a mal modo e sentenze e pareri e detti e fatti, menando la mazza tonda ad ogni cosa e ad ognuno. Ma lasciamo ormai tante reflessioni e diamo principio a quello di che parlare ci siamo proposti. È dunque da sapersi che non son due anni passati che da persona, che oggi più non vive, già mio intrinseco amico, mi fu raccontato come una sera del più crudo inverno, trovandosi egli (che di genio era al tutto contrario a così fatte ragunate) impegnato a caso fra molte persone di condizioni diverse, che in una pubblica bottega facean corona ad un caldan di fuoco, senza voler egli altro più che aspettare (giacché cadea gran pioggia, che poi durò molte ore) ch'e' fosse tempo d'andarsene a sua faccenda, sentì muover ragionamento intorno ad una operetta pure allora stata data alla luce (per principio d'una grand'opera ch'egli ha fra mano) da autor fiorentino, chiamata Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, con quel più che si ha nel frontespizio della medesima; che per essere ormai tal opera nota alla nostra città e per l'Europa tutta, non fa di mestieri altra cosa dirne. Tendeva il discorso alla censura di alcune cose statevi poste dall'autore ed al far menzione d'altre, che essi dicevano avere egli potuto aggiugnere all'altre scritte; e non ha dubbio alcuno che, se non avesse allora portato il caso che l'amico, oggi defunto, che per lunga consuetudine tenuta coll'autore medesimo e per lo diletto che anch'egli dell'arte del disegno si prendea, era molto ben informato non pure di quella, ma delle intenzioni e sentimenti e degli studii eziandio di chi scrisse, non si fosse trovato presente a quel ragionamento, al certo al certo che taluno, uomo di poca levatura, imbevutosi delle ciarle di quella gente, avrebbene potuto formar concetto a suo modo; il che non seguì mercé che, avendo coloro nella persona di lui ritrovato, come noi dir sogliamo, una rosa a lor naso, dopo molte proposizioni, risposte e repliche finalmente si diedero per vinti, ritrattando molto seriamente le proprie false opinioni; e così l'opera e l'autore per quella sera scamparono da' lor denti. Or perché la disputa fu curiosa, non già per le fievoli proposizioni di quella brigata, ma per le risposte del mio amico, le quali diedero bene a conoscere, insieme colle lodevoli avvertenze avutesi nell'opera sua dal nominato autore, altre belle notizie altresì appropriate a quella materia, che, non facendo per allora per lo suo assunto, egli avea a bello studio tralasciate, m'è paruto bene il farne qualche memoria, a fine ancora che possano altri col mio racconto pigliarsi quel diletto ch'io di quello del mio già carissimo amico mi presi. Procurerò dunque, secondo quello che m'andrà sovvenendo, di notare quanto seguì in quella veglia. Ma prima è necessario che io mi protesti che, siccome l'amico mio per sodisfare alle parti della prudenza ed insieme del convenevole. contentandosi di raccontarmi il seguito, tenne sotto silenzio quanti e quali furon coloro che in quella sera parlarono; così non è mia intenzione, né posso, quando io volessi, ragionar di nessuno in particolare, ma d'un congresso di molti insieme da me non conosciuti; che però e per fuggire il tedio che la tessitura d'un racconto fatto alla distesa in materie dove vadano proposizioni e risposte suole apportare, mi son risoluto di servirmi del dialogo, figurando la persona di colui, che le deboli obbiezioni saggiamente impugnò, sotto nome d'Amico, senza dargli altro titolo, giacché egli all'autore dell'opera tale veramente si dimostrò; e le persone che mossero il ragionamento, come quelle che tutte insieme furono a principio d'un sol parere, ristringerò in un solo suggetto, al quale darò nome di Publio, quasi Pubblico, intendendo nella persona di quello di far parlare con Amico tutti a vicenda, siccome tutti a vicenda dopo un breve discorso preso dalla qualità di quel tempo piovoso, dopo aver fatto sopra di esso varii prognostici a credenza o d'abbondanza o di carestia, in cotal guisa diedero principio al lor cicaleccio. Publ. Se i tempi durano così, non poco danno ne accaderà agli scioperati non meno che agli affannoni, mercé che quegli saranno sequestrati in casa, lontani iI più del tempo dalle conversazioni, ed a questi converrà almeno per molte ore del giorno il dar riposo alle tante faccende. Amic. E' pare a prima faccia che voi dichiate il vero; ma e' non è già, ch'e' non potesse anche tutto 'l contrario addivenire; conciossiecosaché a chi non ha che far nulla, né in altro studia che in sollazzare, non reca timor la pioggia, ed a chi ha il genio di mestare, quattro gocciole d'acqua in su la cappa e in sul cappello poco nuocono. Io però son di coloro a' quali questa pioggia non reca altro danno che 'l tenermi qui fermo senza lasciarmi andare a casa, dove nel mio piccolo studio ed al mio tavolino soglio trattenermi qualche ora del giorno a discorrer co' morti, e lascio che riscaldi l'aria, soffi il vento e che i nugoli mandin giù l'acqua a bigonce, s'e' non basta loro a secchie. Publ. E che sarà mai con tanto studiare? Voi avreste pure a conoscere oggimai che quanto più si sa [e] più si dice, manco s'è inteso e più s'è biasimato da chi non sa; onde oggi e' pare che l'affaticarsi molto in questo e tanto più il dare poi fuori al pubblico i parti de' proprii studii sia, né più né meno, un volere andare per le bocche di ogni persona, un sottoporsi al sindacato ed alla censura d'ogni più stravolto cervello, ed in somma sia quello stesso che noi intendiamo di dire con quel nostro proverbio un entrar nella calca per farsi pigiare. Amic. Codesto vorrei io dire ad una sorta di persone che studiano e danno fuora opere per lo puro ed unico fine di rendere il proprio nome dopo morte immortale e perché a quel tempo di loro si parli; anzi soggiugnerei che il ritrovarsi, mentre ancor vivono, non fra gli applausi unicamente cercati, ma fra le beffe e le maledicenze degl'invidiosi, fosse un proporzionato gastigamento dato loro dall'alta Provvidenza di Dio in quello stesso in che peccarono, per fare con tal mezzo loro conoscere che a chi studia non per l'altrui benefizio, ma per aver bene in quel luogo ove egli per morte più non sarà, togliesi a gran ragione anche il possesso di quello ch'ei potrebbe ora conseguire dov'egli è, e che per altro doverebbesegli per giustizia. Non dee pervertirsi l'ordine e l'oggetto di nostra speranza; altri beni debbonsi sperar dopo morte, altri goder solamente in vita. Publ. Dunque a vostro parere tanti gran letterati de' nostri tempi, anzi della nostra età e della nostra patria, che sappiamo avere assaporato una tal disgrazia dopo aver pubblicate le belle fatiche loro, dobbiamo credere che abbiano operato a sinistro fine! Amic. Voi mi toglieste la parola di bocca, scusatemi s'io 'l dico; io voleva soggiugnere che anche gli uomini d'ottima intenzione sono soggetti alle lingue de' malevoli, dico anche quei veri scienziati che a nulla più le loro lodevoli fatiche indirizzano che alla comune utilità; ma per questi tali non corre lo stesso discorso che per li primi, perché le maledicenze e le derisioni per essi altro non sono che quel bel compimento e tutto quel lustro che senza tali cose non giungerebbe mai a possedere la virtù loro, perché a tutto poi dà rimedio il tempo, conciossiacosaché, svergognati finalmente e depressi i malvagi detrattori, svelate le verità, sbugiardate le calunnie, restino poi i seguaci della vera virtù in istato di pace e di quella gloria ch'e' non cercarono. Publ. Mi piace il vostro discorso, ma e' non si può negare però che talvolta non esca fuori tal opera, di quelle dico che danno alle stampe persone molto erudite, che non abbia qualche censura a ragione, e ch'e' non sia lecito a ciascheduno il dire quanto e come gli piace, sopra le cose già fatte pubbliche, il proprio parere e censurare a suo modo ciò che non pare che giunga al perfetto. Amic. Voi dite ch'e' non si può negare, ed io non vi nego, che talvolta qualche sublime ingegno e molto erudito intelletto non mandi fuori qualche parto, che poi esposto (come diceva il gran Michelagnolo Buonarruoti) al lume della piazza non iscuopra qualche neo d'imperfezione; ma io non so già così facilmente concedervi che ad ognuno sia lecito il dire, censurando quanto e come gli piace, il proprio parere sopra l'altrui fatiche, se voi non passate avanti a specificarmi le persone che voi intendete che possano così censurare. Io mi persuado che voi mi direte che quegli dello stesso mestiere; ma costoro hann' eglino letto, riletto, considerato e riscontrato quel ch'e' si mettono a censurare, quanto colui che fece l'opera? Forse che no; se pure l'averanno fatto, son eglino veramente o presumono d'esser pratichi e dotti al pari di lui? Se mel negate, perché censurare chi più sa? Se poi il concedete, io vi dirò con vostra pace che io non ve lo finisco di credere, mercé che, dove si tratti d'un vero letterato che per lunga esperienza conosca le difficoltà che portano con seco le scienze e l'arti, rare volte o non mai occorrerà che nel gustare il dolce delle altrui fatiche, se talora fra i molti ed utili insegnamenti e dottrine alcuna ne troverà che non satisfaccia interamente al suo gusto, egli avventi il dente della maledicenza a quella mammella che l'allattò; rna se pure egli sarà egualmente pratico e dotto, ed in così fatte detrazioni s'impegnerà, oh con quanta giustizia s'accomoderanno a lui le giuste querele d'Erasmo, là dove sopra il proverbio Herculei labores così dice: Colui che scorrendo i libri interi gode della facilità e felicità con che furon composti, non pondera e non intende quanti sudori, quanti stenti tale facilità costata sia a colui che gli compose, a cui talvolta sopra una sola parola fu necessario il perder giorni interi. Poveri scrittori! dice il nostro erudito Carlo Dati, de' quali si vede il lavoro quando sono superate le difficoltà e che tutto è aggiustato e posto a suo luogo, restando occulta la maggior parte della fatica e dello studio speso in fuggire gli errori; in quella guisa che veggendosi una fabbrica quando è terminata, non si considerano le malagevolezze, gl'intoppi e le spese nel fare gli sterri, nel cavar l'acque, nel gettare fondamenti, nel condurre i materiali, nel collocar le porte, nel pigliare i lumi, nel situar le salite; né altri si ricorda delle piante, de' disegni, de' modelli, degli argani, de' ponti, delle centine e di mille altri ordigni e lavori necessari; ma pure questi tanto o quanto si veggono, perché s'opera in pubblico. Così fossero vedute le preparazioni, gli ammannimenti, i repertori, gli spogli, i luoghi imitati, le ponderazioni, le correzioni, i riscontri, i volgarizzamenti degli autori, le bozze, le cancellature, le cose prima elette e poi rifiutate, che per avventura sarebbe più compatito chi mette in luce le sue fatiche da certi severi e indiscreti censori, che non facendo mai cosa alcuna, le fatte dagli altri sempre tengono a sindacato! Fin qui il Dati. Or come volete voi ch'io vi conceda che il dire, censurando quanto e come piace a ciascuno, il suo parere sia lecito' mentre uomini di tanto valore hanno in ciò conosciuto sì poco di giustizia e tanto d'indiscretezza? Publ. Codesti stimo io di quei malinconici umori che genera l'ipocondria a chi assai siede e molto pensa; e quanto a me io non mi fo uno scrupolo al mondo di parlare d'ogni detto e fatto e di dire quello ch'io sento d'ogni materia che mi si presenti all'orecchio, quando non mai per altro, per passare il tempo e dar materia al discorso, il quale se fosse sempre in sul lodare o in sull'approvare, sarebbe corto e melenso, non altrimenti che poco si gradirebbe un convito, nel quale oltre alle vivande condite di zucchero e d'aromati, alcuna non ve n'avesse coll'agro e coll'aceto. Né pretendo saperne più che tant'altri, i quali quantunque non posseggano le qualità che voi vorreste in coloro che voglion censurare l'altrui fatiche, contuttociò parlano indifferentemente d'ogni cosa; con che vivono allegri in loro stessi e fannosi grati alle conversazioni. Or che avreste voi detto, se voi vi foste trovato appunto l'altro ieri in questo medesimo luogo, dove fra più gente assai che noi ora non siamo, a lungo si parlò d'un'opera pur ora uscita alle stampe, intitolata Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, scritta per altro bene da un nostro fiorentino da voi conosciuto, la quale pure sappiamo avere avuto sì grande spaccio in Firenze e fuori, che da voi altri, che fate professione di studi, è stata tanto approvata? E pure vi fu chi gli appose molte cose, le quali troppo lungo sarebbe ora il raccontare; e di questa sorta di discorsi, che fannosi già per regola ed uso ordinario, ve ne potrei raccontare a migliaia. Amic. Avete voi finito di dire? Publ. Mi pare d'essermi lasciato intendere a bastanza. Amic. Quella vostra prima massima, ch'e' sia lecito a chi che sia il parlar d'ogni cosa e d'ognuno per dar materia al discorso, il quale corto e melenso sarebbe ogni qual volta egli stesse sempre in sul lodare, e con tal modo tenere allegro se stesso e dar gusto alla brigata, io vi concedo che sia fatta oggi assai più comune che voi non dite; ma io non ve la posso già né punto né poco approvare, come che ella contraria sia ad ogni buono insegnamento umano e divino; anziché per lo più ella sia l'unica cagione nel mondo di molti mali. Vi potrei dire in confermazione di ciò cose assai, ma qui non è luogo da far predica o sermone; e tanto più perché voi m'avete cagionato tanta maraviglia con dire che l'opera istorica delle Notizie dell'autor fiorentino mio grande amico, della quale sì bene hanno parlato gli eruditi, abbia trovato tra voi altri chi la biasimi, che io ora son fatto curioso di sapere un poco più a minuto ciò che fu detto, perché io che l'ho letta e riletta, stetti per dire quanto l'autore, non vi ho saputo mai veder cosa che, per quanto s'estende mio intendimento, non mi paia che meriti approvazione; anzi sappiate che da qualche tempo in qua io ho avuto, per così dire, poc'altra faccenda che provvederne esemplari, per quegli mandar fuori ad amici che mé gli hanno domandati: la qual convenienza mi è anco costata alcuni scudi del mio. Anzi (e questo pare appunto uno scherzo di commedia) vedete voi questo libro ch'io tengo in mano? Publ. Lo veggo al certo. Amic. Ora immaginatevi ch'e' sia uno di quegli appunto, provvisto poc'anzi da me per inviarlo ad un gran prelato a Ronna che instantemente me lo chiede. Non mancate dunque d'appagare tale mia curiosità, di dirmi a che si riducono queste tante censure che voi dite che furon fatte a quest'opera, perché forse ci riuscirà il capacitarci fra noi; e sarà questo un discorso fatto per puro fine di trovar la verità, e per conseguenza tutto contrario a quegli che io poc'anzi tanto condannava. Publ. Se voi non volete altro, ecco ch'io vi servo; ma primieramente io non vi debbo negare ch'e' si concluse fra costoro che il vostro autore delle Notizie avesse scritto bene, cioè con buona maniera, e che oltre alle cognizioni istoriche de' pittori de' quattro Decennali dal 1260 al 1300 egli avesse anche preso a difender la patria nostra con zelo lodevolissimo da chi procurò di levargli uno de' più bei pregi di cui ella si vanti, cioè d'aver mediante le persone di Cimabue e di Giotto suoi cittadini, chiarissimi lumi della pittura, dato alla medesima nuova vita j ma essi aggiungevano che al parere d'alcuni meglio saria stato il tacere, che mettersi a provare una cosa così risaputa e già dall'universale tanto accettata. Amic. O bene, o bene, o bene! colui che codesta cosa disse, parlò sì bene, che voi mi fate venir voglia di dir come esso; ma però per un poco. Io leggo in un antico autore, ch'e' fu una volta un certo tale, che per dar saggio di sua eloquenza in un congresso di letterati, si dichiarò di voler celebrare le lodi d'Ercole; e appena egli ebbe tal cosa detta, ch'e' s'alzò sù un bello ingegno, e voltatosi a lui così parlò: Voi dite di voler pigliare a lodare Ercole; ma io vorrei ora sapere da voi chi è quegli che ve lo biasima. Con che per avventura mosse a riso tutta l'adunanza; tanto è vero che, per provar cosa già risaputa e da nessuno negata, non è necessario l'affaticarsi. Publ. Di modo tale che chi diede fuori contro 'l vostro autore questa censura, disse bene. Amic. O questo non dico io già; perch'e' sussiste un tal principio fino a quel segno, cioè che le verità chiarissime non siano impugnate; ma nel caso contrario debbesi da chi che sia che sappia e possa farlo, non pure pigliar di loro la difesa con ragioni, ma eziandio venirne alle prove. Troppo tedio v'arrecherei, s'io volessi di ciò portarvi esempli, che tanti sono in numero, che stetti per dire se ne incontra, da chi punto studia, in ogni apertura di libro; ma vagliane uno per tutti, e di tutti il più alto e 'l più forte. Che cosa più certa v'è, che l'esistenza di Dio? Ell'è tanto certa che, astraendosi anche dalle indubitate massime di nostra Santa Fede, la nostra stessa natura quasi quasi ad evidenza il conosce; e pure dannosi da' teologi tante ragioni, e tante cose s'adducono per difendere questa incontrastabile ed accettatissima verità anche dalle opposizioni degli stolti e pazzi, che tali son chiamati nelle scritture quei pochi, che per lo vergognoso timore che le lor menti adombra, più nel segreto de' cuori loro che esteriormente l'impugnano. Coloro che, come voi dite, così parlarono, non lessero mai per avventura quanto da' modernissimi autori, per tirare alle patrie loro quel bel pregio che noi dicemmo poc'anzi posseder la nostra, non ostante il comune consentimento prestato a questa verità per un corso di ben quattrocento anni, fu senz'alcuna né meno apparente ragione affermato. E chi non vede che, avendo questi tali per altro scritto bene d'alcune cose, s'egli avveniva che fossero stati lasciati nelle loro false opinioni e senza ammenda, potevano assi, se non render persuasi tutti di tal falsa dottrina, almeno mettere in dubbio molti? E perché debbesi l'erba non buona a pena nata sradicare, acciò crescendo non soffoghi la buona; perciò l'autore delle Notizie si pose a comporre l'Apologia, che con esse va annessa, nella quale, dopo aver con varie ragioni patentissime al senso annichilati affatto i vani fondamenti degli avversarii, provò con circa a cento autorità de' primi letterati del mondo e de' primi maestri di pittura di diverse nazioni, e con antichissime deliberazioni della città fin da quei primi tempi, ne' quali vissero Cimabue e Giotto, e da ciò che si trova in manoscritti originalì della tanto rinomata libreria di S. Lorenzo del Serenissimo Granduca, dico fin dagli anni 1200, che questi allora gran maestri furono veramente coloro che queste belle arti restituirono alla vita; e così egli (per usar questa parola) ha così forte ribadito il chiodo, che nessuno mai più averà ardire d'opporsi a così gran verità; là dove per avanti da quaranta anni in qua di tanto in tanto usciva fuori qualche forestiero male informato, che o a fine di percuotere il povero Giorgio Vasari, o per tirare il mercato alla propria piazza, faceva sentire qualche novità. Ora andate a dire che l'autore avrebbe fatto meglio a tacere. Publ. Io vi confesso che in questo particolare io non ho altra risposta, se non quel proverbio che corre nel nostro contado, cioè che a chi vuol dar buon giudizio del suono, bisogna il sentire l'una campana e l'altra, e che in ciò che appartiene a prestar fede, chi alloggia alla prima osteria, in che ei s'avviene, trova bene spesso la mala notte. E veramente se tutto quello che si discorse l'altro giorno intorno a quest'opera non ha altro fondamento di quello che s'abbia avuto questa prima proposizione, io dico che, se io non ho a quest'ora con voi per. so il giuoco, io penso di starne male; pur tuttavia seguiterò a raccontarvi il resto. Dicevan costoro: Se l'autore ha voluto, con zelo per altro lodevolissimo, mantener la gloria dovuta alla città nostra, perché dar principio all'opera sua da Cimabue, che cominciò a fiorire nel 1260? Bisogna dunque ch'egli abbia creduto che prima di Cimabue e di Giotto non fossero altri pittori in Firenze. E che gloria è questa della nostra città l'aver cominciato a dipigner solamente in quel tempo, quando noi sappiamo che anche innanzi tante città, come Roma. Venezia, Milano, Bologna, ed altre sparse per l'Europa, aveano i loro pittori? Amic. Leggeste voi mai l'opera delle Notizie, di che ora parliamo? Publ. Io n'ho letta un poco in qua e un poco in là, ma non tutta e non alla distesa. Amic. Così bisogna che abbian fatto quei vostri compagni di conversazione; perché, se l'avessero letta, avrebbero potuto ben bene risparmiarsi tanto fiato gettato al vento in una sì ridicolosa censura. Publ. O questa vorrei vedere! Amic. Or giacché il libro è qui lesto, sentite quel che dice quest'autore al principio della vita di Cimabue. "In tale stato erano allora queste arti, state un tempo sì chiare e di sì nobil grido; ma perché in questo gran flusso e riflusso dell'essere stanno tutte le cose in perpetuo movimento senza mai trovar posa o fermezza, volle Iddio che la pittura e la scultura, e con quelle l'architettura, dopo il loro quasi totale abbassamento e rovina a nuova vita risorgessero; la qual gloria fu per ispecial privilegio alla nostra Toscana conceduta, come a colei che al parer d'autori gravissimi queste due vergini ancor bambine, e fin dall'Egitto a lei rifuggenti, pietosamente accolse e nutrì, e per lunghissimo spazio di tempo in grande e felice stato mantenne". Publ. Ma qui par che si discorra di due tempi, cioè di quei primi primi e antichissimi, ne' quali il disegno e la pittura era in istato d'eminenza; e pare che voglia dire che anche la nostra Toscana ne poteva gareggiare co' Greci e coll'altre nazioni; e poi si viene a quello della caduta delle arti medesime. Amic. Voi dite benissimo e notate quella parola "a parere d'autori gravissimi"; perché io so che l'autor dell'opera l'ha detta con fondamento e s'è fatto debitore di mostrare, quando bisogni, quanto egli affermò; e questa anche è una gran gloria della Toscana, l'aver ne' tempi più felici in queste arti potuto accomunarsi colle nazioni più rinomate; né vi sarà mai nessuno scrittore, che volendo dar lodi in tal particolare alla Toscana, la possa pigliar più da alto. Seguita poi a dire dell'altro tempo, cioè dell'universale caduta, e afferma che alla patria nostra, come voi sentiste, mediante la persona di Cimabue fosse dato l'onore del risorgimento di queste arti. Se poi ei credesse che nell'antichità moderna, cioè avanti a questi, ella avesse pittori o no, sentitelo in parte da quanto ei soggiugne nelle Notizie. Siamo tuttavia nella vita di Cimabue alla quinta pagina, dove si parla di Margaritone pittore aretino: "Avea fin da gran tempo avanti - e notate questa parola "gran tempo avanti", che vuol dire gran tempo avanti al 1260 che cominciò a fiorire Cimabue - e molto più in quei medesimi tempi la venuta in Italia de' pittori Greci fatto sì che altri, pure inclinati a quell'arie, ad essa attendessero. Fra questi ebbe la città d'Arezzo un tale Margaritone, che fu anche scultore e architetto; similmente la città di Roma, Venezia, Siena e Bologna, anzi per quanto pure io medesimo ho veduto, non dubito punto d'affermare che quasi ogni città nutrisse i suoi pittori; ma però senza che mai si scorgesse in quegli alcun miglioramento dal goffo modo che i greci tenevano; ed è certa cosa ch'e' non vi fecero allievi che punto valessero, onde a gran ragione l'antica e la moderna età solo a Cimabue, che tanto l'arte migliorò, comunicandola anche ad altri che poi eccellentemente la professarono, ha data la prima lode". Fin qui nella vita di Cimabue. Or sentite questo luogo nell'Apologia alla 24, pagina: "Fin qui il Felibien, e avverta il lettore che il moderno autore già tante volte mentovato, per avvalorare suo sentimento, lasciando di far menzione di ciò che disse il Felibien nel luogo sopra notato, lo cita per sé in un altro luogo, nel quale egli non disse mai ciò che esso autore vuole ch'ei dica, né contraddisse a se stesso, ma asserì quello che veramente fu vero, che gl'Italiani non sono stati i primi inventori della pittura, e che innanzi che Cimabue e Giotto incominciassero a far rivivere quest'arte, nel fioritissimo regno della Francia ella si praticava non punto inferiormente a quello che si faceva in Italia; perché torno a dire che verissima cosa è che in ogni parte d'Europa avanti a Cimabue e Giotto si dipingeva, ma alla greca e gottica maniera". Publ. Seguitate pure a cercare se vi sono altri luoghi, perché io gusto d'esser fatto capace. Amic. Mancano i luoghi che vi sono. Eccovene un altro pure nell'Apologia alla 20 pagina: " Così dee credere ogni persona, che uomini così dotti e savi, anzi pr1mi lumi della letteraiura e o dilettanti o professori che pellegrinarono per l'Italia e pel mondo, non averebbono scritto cosa tanto contraria al senso, quanto fosse che l'opere di Cimabue e di Giotto fossero superiori a quelle d'ogni altro pittore di quei tempi e di alcuni altri avanti; mentre che pure tante e tant'altre pitture erano per tutta Italia e fuori di diversi maestri antichi e di quei medesimi tempi ancora che Cimabue e Giotto operavano". Passando una carta avanti, ecco che s'incontra un altro simil detto: " Ma perché non posso io a verun patto indurmi a credere contro ciò che io medesimo [ho veduto] nel confronto che ho fatto d'innumerabili pitture che si facevano avanti a Cimabue e a Giotto, con altre di lor mano per la Toscana ed altri luoghi d'Italia ec.". Alla 28 pag. dice così: "Non è vero che il Vasari tenesse giammai chc al tempo di questi due e innanzi ancora stesse il mondo senza pitture e pittori, come in moltissimi luoghi dell'opera di lui si riconosce, né la cristiana religione mai fu senza le immagini da venerarsi in su gli altari e nelle chiese, il culto delle quali ebbe il cominciamento suo fino da' tempi apostolici ". Publ. Questi mi paiono detti molto espressivi contro a quel nostro discorso. Amic. Or sentite quanto io trovo nella vita del Tafi, la prima dopo l'Apologia:" Ma contuttociò poco poteva egli profittare, mentre non pure i popoli di quei tempi, avvezzi a non vedere altro modo che quel goffissimo che allora per ognuno si teneva, ma eziandio gli stessi professori, non passando più là coll'ingegno di quello a che arrivava la rozza mano, s'eran formati un gusto tanto infelice quanto dimostrano oggi le poche loro pitture che sono rimaste, credendosi che né più né meglio si fosse potuto fare di quello che essi facevano". E parla de' tempi avanti a Cimabue. So che troppo vi tedierei, però contentatevi che io mi sbrighi col racconto d'un altro luogo solamente, ch'è al principio della vita di Arnolfo. Dice egli così: "Avendo io fra le notizie di Cimabue, il primo che migliorasse l'arte del disegno, in parte fatto vedere lo stato infelice, in che ella si trovava a' tempi suoi, e fino da più secoli avanti ec." Or se questo vuol dire che l'autore delle Notizie abbia creduto che avanti a Cimabue non fossero in Firenze pittori, voi stesso il giudicate. Publ. Per dirvela, e' mi pare d'aver anche in questa seconda proposta poco acquistato; ma non crediate però ch'io la voglia finir qui. Dico dunque che codesta cognizione data così in generale non par che finisca di quadrare. A me sarebbe piaciuto ch'egli di codesti antichi pittori avesse almeno dato qualche esempio. Amic. Ditemi un poco chi fu Andrea Tafi, del quale l'autore delle Notizie ha descritto la Vita; fu egli pittore? Publ. Certo che sì, e poi si diede al musaico. Amic. Or chi fu prima: il Tafi o Cimabue? Publ. Il Tafi certo, perché mi par ricordarmi che 'l vostro autore lo faccia nato nel 1213 e Cimabue nel 1240. Sicché quando venne al mondo Cimabue, il Tafi già era in età di 27 anni e pittore. Amic. Eccovene dunque un esempio, e se voi avete seguitato a leggere, averete trovato ch'egli se n'andò a Venezia, dove erano pittori che dipignevano a musaico: eccovene altri; e se voi avete osservato ciò ch'io dissi di sopra di Margaritone, nella persona di lui ne averete sentito nominare un altro. Se poi vi piace di parlare degli scultori e architetti, ditemi, per grazia, chi fu Arnolfo di Lapo o di Cambio? fu egli scultore e architetto e nostro fiorentino? perché, quantunque il Vasari lo facesse tedesco, l'autore però delle Notizie ha mostrato ch'e' fu da Colle di Valdelsa. Publ. Certo ch'e' fu scultore e architetto, e fece gran cose in Firenze. Amic. Or questo, secondo l'autore delle Notizie, nacque nel 1232 e Cimabue nel 1240. Ma avete voi letto quello che lo stesso dice nella vita di costui, parlando di quell'arte? Sentitelo: "Fece ancor essa poi coll'altre arti naufragio, onde i maestri, che dopo l'usarono per più secoli fino ad Arnolfo, condussero l'opere loro, tutto che grandi e dispendiosissime, con ordine barbaro, senza modo, regola o ornamento. Basterà solamente ora al mio intento il far menzione dell'opere d'alcuni pochi di quegli che operavano in quegli ultimi secoli infelici e più vicini a' tempi d'Arnolfo"; e quivi ragiona d'un certo Buono, d'un Guglielmo, d'un Buonanno, d'un Marchionne aretino, di quel Fuccio fiorentino che in Firenze edificò l'anno 1229 la chiesa di S. Maria sopr'Arno, e poi di Lapo, che il Vasari fece padre di Arnolfo, di cui parlando l'autore delle Notizie attesta aver trovato in uno spoglio di più memorie tratte dalle Riformagioni, dell'eruditissimo Vincenzio Borghini, che Arnolfo fosse figliuolo di Cambio e non di Lapo. Leggete poi quanto egli scrive nella vita di Giovanni Pisano scultore e architetto, e vedrete di quanti scultori egli fa menzione, che furono avanti a Cimabue. Publ. Ma io torno sempre da capo e dico che s'egli avesse avuta notizia di molt'altri pittori di quegli antichi tempi, egli avrebbe dovuto cominciare da questi; e così averebbe portato in altro senso il detto suo a nostra gloria maggiore; il che non ha fatto, cominciando da Cimabue, che venne dopo costoro. Amic. Quanto all'avere egli avuta notizia ed anche gran notizia di molti pittori che operavano avanti al nominato maestro, vi dico che se io avessi tenuto a mente tutti i nomi di coloro de' quali egli a bello studio non fece menzione, siccome io ne veddi una volta un lungo catalogo, e quegli vi volessi raccontare, troppo vi terrei a disagio; ma non per questo voglio lasciare di nominarvi quei pochi che m'andranno sovvenendo, senza obbligarmi però a ordine di tempo. Mi sovviene d'un certo Dino di Benivieni del popolo di S. Maria Novella, che trovasi nominatamente per pittore del 1299; d'un Lapo Scatapecchia, figliuolo di Compagno, del 1300; d'uno Stefano di Zanobi del popolo di S. Pier Maggiore, nominato del 1301; d'un Vannuccio pure del 1301, d'un Guccio di Lippo, d'uno Annuccio di Puccio, d'un Pacino di Buonagni del popolo di S. Lorenzo, tutti nominati per pittori del 1300; d'un Maso del già Risalito del popolo di S. Michele Visdomini, del quale anche vien fatta menzione nelle pubbliche deliberazioni del 1260 (Atti di ser Buonaccorso Faccioli, Atti di ser Matteo di Biliotto da Fiesole). . Di più mi ricordo avergli sentito dire essersi trovata una sepoltura dalla parte di verso il campanile di S. Reparata con queste parole: Ser Ghiesis Beni Ghiesis et suorum; ed avendo egli trovato poi, che ne' libri di quella chiesa vien fatta menzione d'essere stata data sepoltura nel 1297 a Madonna Riguardata, moglie del già Ghese pittore, che fu figliuolo di Piero di Bene o del Bene, del popolo di detta chiesa, credette che quivi anch'egli fosse stato sepolto. Or se voi osserverete il tempo in cui trovansi costoro nominati per pittori e darete loro gli anni della vita secondo un certo ragionevole riguardo, troverete che molti di questi potettero operare avanti a' tempi di Cimabue. A questi potrei aggiugnere un Duccio del popolo di S. Maria Novella, un Jacopo di Serraglio del popolo di S. Maria Maggiore' un Filippo di Benivieni, un Manetto di Lottieri del popolo di S. Michele Visdomini, un Lippo di Benivieni del popolo di S. Lorenzo, che tutti operavano avanti e poco dopo al 1300. Ma ditemi in cortesia: quei vostri savi censori vi dissero eglino di sapere quali e quante opere avessero fatte in Firenze o altrove questi o altri pittori de' tempi avanti a Cimabue? Di grazia, per vita vostra, procurate d'intenderlo, perché io ne possa dar cognizione al mio autore; se poi non lo sanno né essi, né altri, fate vostro conto che se l'autore predetto nelle sue Notizie si fosse messo a tenere un catalogo de' nomi loro, senza nulla più, io non ne avrei fatta più stima, né vi averei avuto gusto maggiore di quello che averei fatto se mi fosse stata data a leggere una lista d'un bucato. Al più al più mi potreste dire, sarebbe servita tal notizia per mostrare che quest'arte fu anche in Firenze esercitata negli antichi tempi da persone nobili; ma non è ella già fatta nota questa particolarità nella persona stessa di Cimabue, che ne fu il primo restauratore, che fu anch'esso di nobil famiglia, come lo stesso autore ha dimostrato? Vi potrei anche dire ciò ch'egli mi raccontò; cioè che in quegli antichi tempi erano stati ed erano tanti pittori in Firenze, che non molto distante da S. Michele in Orto era una via, che comunemente chiamavasi de' pittori: dissemi inoltre aver trovato nelle antiche memorie che più pittori in un tempo stesso venivano soprannominati del Corso, e questi, secondo lui, erano coloro che abitavano da S. Bartolommeo del Corso. Ora andate voi a dire ch'e' non ebbe notizia di pittori avanti a Cimabue: ed ecco ch'io ho già risposto anche all'altro quesito del perché egli abbia cominciato da Cimabue, e non dagli altri stati innanzi a lui, come fece anche il Vasari. E perchè io mi avveggio sempre più che verissimo fu quanto voi mi diceste poc'anzi, cioè di non aver molto letta l'opera che voi censurate; contentatevi che per rendervcne più capace, io vi rimetta al testimonio del frontespizio della medesima, il quale può essere che abbiate letto; e se così è, siccome io per amor vostro voglio credere, voi non dovreste cercare di altra risposta. Ditemi, per vita vostra, vi trovaste voi scritto queste formali parole: "Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, per le quali si mostra come e perché le bell'arti di pittura, scultura e architettura, lasciata la rozzezza delle maniere greca e gottica, si siano in questi secoli ridotte all'antica loro perfezione"? Publ. Certo che tali parole si leggono nel frontespizio. Amic. Contentatevi ora ch'io vi riduca a memoria quello che voi mi diceste poco fa per appiccar l'ugna ad un'altra cosa. Voi diceste ch'era voce ormai troppo universale che Cimabue e Giotto furono i primi lumi della pittura, che però biasimavi l'aver l'autore preso a difendere una sì palese verità. Ora io argumento in questa forma: fu intenzione dell'autore, com'egli scrisse nel frontespizio, dimostrare come e per chi le belle arti ec., lasciata la rozzezza delle maniere greca e gottica, si siano ridotte in questi nostri secoli all'antica loro perfezione. Cimabue e Giotto furono i primi lumi della pittura; dunque da questi dovea incominciare a parlare l'autore delle Notizie; e de' tempi loro e non di quegli, ne' quali la città nostra non avea ancora tali uomini partorito; onde Vi dovreste voi appagare dell'avere egli a principio dell'opera sua dato di quegli antichi tempi una notizia all'ingrosso, se però voi non pretendete che ogni scrittore d'istorie debba, sotto pena di vostra disgrazia, sempre incominciare dalla creazione del mondo. Ma per chiarirvi anche qui: è egli forse stato il primo scrittore di materie istoriche che abbia celebrato per primo e quasi unico chi di gran lunga avanzò altri stati avanti a lui, senza né punto né poco parlar di loro, o al più con dirne qualcosa alla sfuggita? Se non lo sapete, eccovene gli esempli de' maggiori scrittori del mondo: Cicerone nel libro De Legibus chiama Erodoto Alicarnasseo padre dell'istoria, e pure avanti a lui era stato Ecateo Milesio, del quale Suida Greco nel Repertorio di voci, favole, istorie ec. alla parola Hecateus aveva detto che questo era stato il primo a dar fuori in stile sciolto la storia. Ecateo era persona conosciuta, pure non bastò la di lui nominanza per togliere ad Erodoto, più moderno di lui, che di lui solo in grado sublime parlasse Cicerone. Vi sovviene di quanto occorse ad Archelao, come si ha da Laerzio nelle Vite de' Filosofi? Questi prima di Socrate del giusto e dell'onesto e delle leggi disputò; e pure poco si parlò di lui, ma a Socrate diedero l'onore di aver egli il primo quella parte di filosofia ritrovata, che a' costumi appartiene: e pure, che altro fece egli che ridurla a perfezione? E lo stesso autore Laerzio non dice egli che Platone, che molto di bello aggiunse al dialogo, fu quasi egli solo nominato, tacendosi interamente di coloro che tal modo di comporre avean trovato innanzi a lui? Vedete quel che nel primo libro delle Storie scrive Gaio Velleio Paterculo, e troverete ch'egli ad Omero dà gran pregio d'essere stato nell'opera sua primo e perfettissimo autore, e pure avanti a lui avea detto Cicerone nel Bruto, che innanzi ad Omero furono poeti: e se di questi volete qualche testimonianza, leggete Eusebio, che troverete che tali furono Lino, Filamone, Lamira, Anfione, Museo, Demodoto, Epimenide, Aristeo ed altri molti. Tornate ora a reflettere a quello che dice il soprannominato autore greco Suida alla voce Gorgias; dice egli ehe Gorgia Leontino oratore alla spezie di rettorica, percettiva, didascalica o che insegna (comunque dir vogliamo) diede la forza della frase e dell'arte, che si servì di figure, metafore, allegorie, parisosi ed altro, e pure avanti a lui erano stati dicitori di qualche nome: tali furono Temistocle, Pericle, Cleone, Alcibiade, Crizia ed altri, a' quali pure non dovea esser mancaia qualche arte, essendo lor mestiere, come politici, di parlare a' soldati ed al popolo. Cicerone nel Bruto ferma che Isocrate fu grande autore e perfetto maestro e che fu il primo che nel parlare sciolto, col discostarsi dal verso, sapesse dar misura e legge al periodo, e che avanti a lui non v'era numero del periodo; e se pure v'era, parea più tosto questo un impulso della natura o cosa fatta a caso, che a lume di ragione, o regola alcuna. D'Isocrate dunque il padre delle lettere fa encomio come d'inventore del periodo, e non di quei tanti che furono avanti a lui. Avanti a Cimabue la nostra Toscana avea pitture e pittori, ma in quelle ed in questi ella non era punto dissimile all'altre provincie, perché tutti i pittori dipignevano alla greca, ch'era la maniera allora rimasta in piedi dopo le rovine dell'arte; e perché i pittori prima si fanno dalla natura e poi dallo studio, è giusto quanto dire che il loro operare era anzi uno sforzo dell'inclinazione naturale, che cosa fatta a lume di ragione, o regola, come sopra dicemmo del periodo; onde né meno possiamo dire di loro quello che Orazio disse di quei forti guerrieri che furono innanzi ad Agamennone, cioè che restò lor fama sepolta, perché e' non toccò loro in sorte di aver poeta che gli celebrasse; perché i nostri antichissimi pittori, che operavano avanti a Cimabue, per le ragioni dette non lo doveano avere, non l'ebbero, né l'averanno mai da chi ha punto di barlume della perfezione dell'arte. Or che mi state voi a dire di gloria maggiore o minore ? Gli uomini dozzinali, e che a nessuno sono superiori, né hanno in sé né danno gloria alcuna a nessuno. Fra i nostri e gli stranieri fu, come è solito, qualche piccola differenza nel modo particolare e privato del pittore, ma non nella bontà dell'operare, né tampoco nell'universal maniera greca, che da tutti egualmente si teneva; né il gran numero de' pittori mentovati in quel vostro congresso, e de' quali si sarebbe voluto che fosse stata fatta particolar menzione, poteva alcuna lode aggiugnere alla patria nostra, e da questo il conoscete. Nell'arte della guerra, dove null'altro pare che si ricerchi che la forza, la quale per ordinario più ne' molti che ne' pochi si ritrova, non si richiede solamente la quantità per far grandi imprese, ma la qualità de' guerrieri. Ve l'insegnino i pochi soldati d'Alessandro a fronte degli innumerabili di Dario, questi sempre vinti, quelli sempre vincitori. Se poi queste ragioni non vi appagano, io dico ch'e' bisognerà per l'avvenire anche mettere in uso d'accarezzar le piattole e' topi, non per altro, se non perché e' nascono e sono allevati in casa nostra, ed in maggior numero che non fanno i bracchi, i levrieri ed i cavalli stessi. Publ. Io resto capacissimo di queste ragioni; però non v'adirate, ma ditemi come si prova quella maggioranza di Cimabue sopra ogn'altro stato avanti a lui per più secoli? Amic. Già voi l'avete concessa di sopra, quando voi chiarnaste costui e Giotto primi lumi della pittura. Ma di grazia guardate di non v'impegnare in far questa domanda, perché v'uscirebbero subito incontro colle fischiate non solo tutti i gravissimi scrittori e tutti i professori dell'arte stati da quattrocento anni in qua per tutto 'l mondo e dall'autore delle Notizie citati nella sopraccennata Apologia, ma eziandio le pitture medesime, che degli uni e degli altri sono restate; se però voi aveste occhio adattato alla cognizione delle differenze che passano trall'une e l'altre, siccome l'ha avuta il mio scrittore, il quale frall'opere che a suo tempo darà fuori, una ne farà vedere, con cui farà conoscere così patente a' sensi nostri questa verità, che non vi sarà più chi dubitare ne possa, quantunque ignorante dell'arte. Publ. Io mi chiamo vinto anche qui ed assai bene intendo che nessuna gloria averebbe accresciuto a Firenze il parlar di persone che per non essere ad alcuno superiori nell'arte né meno aveanla guadagnata per loro stesse, parendomi aver sentito che sia sentenza de' filosofi che l'onore seguiti la singolarità; onde da colui dovea il vostro autore incominciare a parlare con gran lode, che se stesso e la patria mediante suo dotto lavoro avea resa sì chiara. Ma rispondetemi ad un'altra cosa, che appunto cade nel proposito nostro, ch'è del maggior onore che pare che sarebbe dovuto darsi alla nostra città dall'autore delle Notizie, di quello che egli ha fatto. Se tanti pittori erano in Firenze, che potevano essere stati maestri di Cimabue, perché farlo discepolo de' maestri greci? Contentatevi ch'io ve lo dica, che qui si batte forte la cassa. Amic. A questo io non vi so rispondere altrimenti, se non che voi ed i vostri amici andiate a farla con suo padre, a cui venne quella voglia d'accomodar Cimabue suo figliuolo co' maestri greci, e non co' nostri; perché in quanto a me, io che so che l'onor della nostra patria non comincia nel maestro di Cimabue, ma in Cimabue medesimo, non istimo più un quattrino che egli avesse i principii da' Greci che dipignevano come i Fiorentini, o da' Fiorentini che dipignevano come i Greci, di quello ch'io stimerei se io sentissi dire che Cimabue fosse stato discepolo d'uno che avesse avuto nome Cesare, o d'un altro che si fosse chiamato Niccolò; mentre tanto gli uni che gli altri non potevano comunicargli più scienza di quella ch'egli medesimo co' proprii studii si procacciò; e questa fu la gloria della nostra patria. Or sia detto con pace della vostra conversazione, questa mi pare una censura molto sciocca e ridicola; contuttociò dite pure da mia parte a chi diè fuori pensiero sì pellegrino, ch'egli mi sappia dire chi de' nostri Fiorentini fu maestro di Cimabue, contro a ciò che dicono gli autori; ché per l'amicizia che passa fra me e lo scrittore delle Notizie, io impegno tutto me stesso e promettovi ch'egli farà ritirare il foglio, dove egli seguendo il detto del Vasari tal cosa affermò; o in altro modo ritratterà se medesimo, con sicurezza però di non accrescere con tal diversa asserzione neppure un punto di gloria alla cíttà di Firenze. Publ. Veramente io non so che rispondervi, perché e' non si può dubitare che, se l'onore d'una città d'aver partorito un uomo superiore ad ogn'altro stato più secoli avanti, si avesse ad attribuire al maestro di lui, bisognerebbe poi dire che non al maestro, ma a chi fu maestro del maestro, e così darebbesi il processo in infinito senza venirne mai al capo: sicché e' bisogna concludere per mio avviso, che l'avere insegnato ad un grand'uomo uno o un altro dozzinale maestro, è cosa mera accidentale, ma la sustanza è quella ed a cui la gloria si dee, l'avere un uomo, che ebbe un maestro di poco valore, saputo con propria industria perfezionar se stesso e così aver dal poco o dal nulla cavato molto; e l'aver fatto il contrario di coloro che furono avanti a lui dovrà esser sempre cagione di biasimo e non di lode? Ma che mi direte voi intorno a questo? L'autore delle Notizie ha detto, seguitando il Vasari, che furon chiamati a posta per dipigner la cappella di S. Maria Novella alcuni maestri greci, quegli stessi che poi egli dice che furon maestri di Cimabue. E come è possibile ch'e' fossero chiamati a posta i Greci, mentre il vostro autore ha detto e concesso che in Firenze non mancavano pittori? Amic. Al certo ch'egli ha concesso quanto voi dite; ma io adesso domando a voi: e come è possibile che in quei tempi medesimi, e prima ancora, i pittori greci fossero chiamati a Roma ed in tante altre città d'Italia, dove si veggono fino ad oggi le loro pitture? E pure abbiamo fermato fra noi che in quei tempi in ogni principal città erano pittori. Era ella forse nuova cosa in Toscana il chiamare i Greci a' suoi servigi in cose attenenti al disegno? Dovrebbe pur sapere questo vostro censore, che fino del 1016 fu dato principio alla fabbrica del Duomo di Pisa con disegno del celebre architetto in quei tempi Buschetto greco da Dulicchio, e pure avea Pisa quegli artefici che tal disegno presero a mettere in opera, Leggete, leggete anche qualche volta di quelle cose che si trovan rinvolte nelle cartapecore, e troverete che Zeusi, avendo mandato sue pitture ad Archelao, fu da esso chiamato in Macedonia per dipignervi quel suo gran palazzo che fu in quei tempi l'unica maraviglia del mondo; e non si portò egli a Crotone, dove, oltre alla rinomata Venere, tant'opere condusse di sua mano? E lascio a voi il dar sentenza se in Macedonia ed in Crotone erano pittori. Publ. Ma questi erano uomini singolarissimi, e non è gran fatto ch'e' fussero chiamati dove erano altri a loro inferiori; ma se voi avete sopra affermato che fra l'opere de' pittori greci e de' paesani nostri non era alcuna differenza, come s'ha egli a credere ciò che è stato detto dal vostro autore, seguitando il Vasari, che fossero stati chiamati a Firenze apposta maestri forestieri? Questo averebbe avuto luogo quando e' non vi si fosse dipinto al pari di loro. Amic. Ecco ch'io vì ritorco l'argumento. Ne' tempi di Raffaello furono eglino in Roma pittori che operassero al pari de' forestieri? Sì certo, direte voi, e non solo al pari degli altri, anzi se voi vorrete aderire al parere di singolarissimi professori, considerando in esso Raffaello il gran cumulo di qualità eccellentissime ch'egli ebbe unite in se stesso tutte in grado eminente, direte ch'egli non ebbe eguale in Roma, né eziandio in tutto l'universo. Or ditemi quanti e quanti furono chiamati a Roma a dipignere ne' tempi di questo grand'uomo; e pure tutti erano nell'arte inferiori a lui. Venezia, ne' tempi di Tiziano e del Tintoretto, quanti ne furono chiamati anco di Toscana. In Lombardia e nel Veneziano, ne' tempi de' Bassani e del Veronese e d'altri eccellentissimi uomini, quanti pittori furon chiamati di diverse provincie! La nostra patria stessa, dove in così eminente grado risiede oggi quest'arte nobilissima, qùanti ogni dì ne chiama! ma non pure la nostra pat1ia, ma i particolari cittadini, conciossiecosaché ad alcuni piaccia più una che un'altra maniera, e che a tutti, anche nelle cose ottime, dia gusto la varietà e l'esporre alla vista de' suoi concittadini nuove e belle maniere, il che non ha molto abbiamo veduto in Firenze praticarsi. Taluno trovasi bene spesso, a cui, per vedere a' suoi giorni qualche opera finita, non riuscendo l'avere chi ei vorrebbe, fa di mestieri il far ricorso ad altri ch'ei puote avere; taluno cerca il risparmio, altri ama la prestezza nell'operare, ed altri muovesi da altro motivo: e che vorrebb'egli questo vostro savio censore, che ogni volta ch'egli scappa fuori un buono artefice, egli avesse a fare ogni cosa esso? Ricordategli che la madre natura a' valenti uomini ed agl'ignoranti ha dato egualmente un sol capo ed un par di braccia, e riducetegli alla memoria il detto di quel celebre pittore Cristofano Allori, il quale, avvisato ch'egli averebbe potuto dar sodisfazione a molti più di quel ch'e' faceva con sue pitture, s'egli avesse tirato alquanto più di pratica, rispose che voleva operare a suo modo, perché e' non avea preso a dipignere tutto Firenze. Vorrete dunque che ciò che depende per lo più o dal caso o dal genio o dall'interesse d'un solo, o dalla volontà de' medesimi pittori, possa fare una prova universale, onde e' s'abbia a dire nel caso nostro non esser credibile né possibile ch'essendo stati a quel tempo nella nostra patria pittori, vi fossero chiamati gli estranei? Eh che queste sono, come io dissi, censure ridicolose e che fanno dubitare d'aver lor fondamento anzi in una qualche veemente passione che in un lodevole e bene ordinato zelo. Publ. Io non ho che opporre a queste vostre repliche, ma sappiate che, giacché finora che ho batagliato con voi, non m'è riuscito il far tiro, mi risolvo di dar fuoco al pezzo grosso. E che risponderete voi a quello ch'io son per dirvi adesso? O questo sarà un colpo che vi darà a molte tavole. Dicon costoro che errò il Vasari, e con esso il vostro autore medesimo, in dire che Cimabue avesse imparati i principii dell'arte da' Greci chiamati in S. Maria Novella a dipignere la cappella di S. Luca, ed esserne chiara la prova: perché, se in quel tempo non v'era la chiesa, non che la cappella, come potevano i Greci esservi chiamati a dipignerla? Se la chiesa nuova, di cui si vede esser parte essa cappella, fu cominciata a edificare del 1279 e finita dopo il 1300, e se nel 1260 già Cimabue era maestro, come poteva egli mai avere imparato da' Greci che quella cappella dipinsero il 1279? Questi sono gli errori che non meritano scusa, dicevan costoro, questi sono errori in cronologia, e che mostrano che bene averebbe fatto l'autore delle Notizie, prima di darle fuori, a fare esaminare tale asserzione del Vasari e sua a chi era pratico delle cose antiche. Amic. Veramente io pensava d'avere a sbalordire allo scoppio di codesto vostro pezzo grosso, ma ringraziato sia Dio, ché se voi non avete altra batteria che codesta, io penso d'avermi a star forte in sulle gambe senza crollar punto, come sono stato fin qui. Ma prima di venire alla parata del colpo, contentatevi ch'io vi dica qualche cosa intorno all'ultime vostre parole, cioè che l'autore prima di dar fuori quest'asserzione del Vasari, e sua, dovea farla esaminare a' professori d'antichità. Questa, per dirvela, è una grande ingiuria che più d'uno colpisce, né io credo ch'ella sia nata da voi altri, ma da qualcheduno di coloro, de' quali parlò Tertulliano, che nostra suffodiunt ut sua aedificent (De praescript. haereticorum, c. 42); e per quanto ne tocca al mio autore dico: adunque chi si mette a scrivere di cose succedute da più di quattrocento anni addietro, e che, indipendentemente dal Vasari e da ogni altro, empie un suo libro di notizie di quei tempi, non potrà dirsi pratico d'antichità? Dunque egli non fu del mestiero dello scrivere ciò ch'egli scrisse ? E qual dispregio maggiore di questo? O almeno sapessi io chi fu questo nuovo Prisciano, acciocché io potessi far sapere all'amico mio, autor dell'opera delle Notizie, da chi egli doverà per l'avvenire andare a farsi rivedere il latino. Per quello poi che tocca al Vasari, sappiate ch'egli medesimo ancora seppe e scrisse del tempo nel quale fu cominciata a edificare la nuova chiesa e nel quale vi fu posta la prima pietra, cioè del 1279, ed egli medesimo anche scrisse quanto occorse nella chiesa vecchia intorno alle greche pitture, come voi più avanti sentirete, ond'egli, a detta di costoro o di costui, fu così grosso di legname, ch'e' non si avvedde che in poche righe di scrittura egli dava una solenne mentita a se stesso. Ma dove sei tu, il mio erudito e leggiadrissimo Raffaello Borghini, scrittore del bel libro del Riposo? Senti tu quel ch'e' dicono? E' dicono che anche tu fosti un solennissimo capocchione a credere al Vasari e scrivere in tal proposito tutto ciò ch'egli scrisse. Oh povero virtuoso! al certo al certo che tu non ti saresti mai creduto o aspettato che dopo cento anni e dopo che tua sentenza fu da tant'altri buoni scrittori seguitata, te ne dovessero esser così all'indegna sonate dietro le predelle nella persona del Vasari e del mio autore. Ma lasciatemi ripigliar le parole di quel vostro critico ingegnoso. Questi, dic'egli, sono gli errori che non meritano scusa, questi sono errori in cronologia, con quel che segue. Questo, dico io, è l'ardire, per non dire temerità, il voler amplificare, annichilare, ingiuriare ed anche sopra l'ingiuriato trionfare, che tanto e nulla meno fa conoscere una tal maniera di dire! Ma basti intorno a questo, giacché l'ingiuria, secondo quel che Seneca n'insegna, non trova luogo nel savio, ma a guisa di freccia contro il cielo vibrata, ricade ben tosto in offesa di colui che l'avventò. Ed eccomi a quel vostro pezzo grosso, che fa sì gran rumore a credenza, tanto che voi, o chi che sia, andate dicendo che, quando Cimabue poteva imparar l'arte da' greci pittori che dipinsero la cappella di S. Luca, quella cappella non era in piedi, perch'ella fu fatta dopo la fondazione della chiesa grande, cioè dopo il 1279. Or sapetelo voi di buon luogo? Publ. Io dico quello che ho sentito dire e non ho da mostrarne nulla ch'abbia fondamento. Amic. Così credo che possa dire quel vostro censore: e vorrà egli eon nessun fondamento mentire tanti autori insieme? Ma quand'egli avesse qualche antichissimo scrittore che fosse di contrario parere, in tal caso io vi direi esser parte di discreta persona e che non volesse malignare, il procurare senza pregiudizio della verità di conciliare fra di loro gli uni e gli altri pareri e non così autorevolmente negare. Il dottissimo Scaligero, per averne trovato uno, al quale egli molto credeva (questi fu Ermippo), scrisse, contro la sentenza di molti ecclesiastici autori, che la versione de' Settanta non fu procurata da Demetrio Falereo a Tolomeo Filadelfo. Il Vossio poi nel libro degl'Istorici Latini, non volendo esser tanto ardito, salvò gli scrittori atterrati da lui, conciliando le diverse opinioni con dire ch'ella fosse consigliata da Demetrio Falereo al padre di Tolomeo e che poi sotto il figliuolo avesse sua fine. Io leggo che Platone si dolse d'Omero, perché egli avesse fatto ridere troppo sconciamenie gli dei nel vedersi servire a tavola dallo zoppicante Vulcano per dar loro bere (Osservazione sopra i libri di Platone, Repubbl,III, 388-389); ma Proclo, tirando il concetto d'Omero ad un bel senso allegorico, cercò destramente di scusarlo della taccia che gli diè quel gran filosofo. Girolamo Bartolommei, nostro letteratissimo gentiluomo, dopo avere in un suo dotto libro fatta menzione di più recondite sentenze d'autori antichissimi e fra di loro diverse intorno all'origine della commedia, nessuna ne confutò; ma con raro esempio di moderazione, eguale alla bontà e pietà dell'animo suo, si contentò di farci conoscere a quale di quelle egli sentiva più sua credenza inclinata. Ma ben io m'accorgo che troppo onore mi son posto a fare con tante risposte ed esempli di grandi uomini a sì frivole proposizioni; però, comunque si sia la cosa, fate intendere da mia parte a chi diè fuori tal censura, che né l'autore delle Notizie, né io, né nessuno vogliamo confessar questa partita, se e' non se ne mostra la ricevuta; e che non è più quel tempo che, a fine ch'e' si credesse ogni cosa, bastava sol dire: "Pittagora lo disse", e che de' Pittagori non ce n'è più: prove voglion essere contro l'autorità degli scrittori, e non parole. Ditegli che avanti al cominciamento di questa nuova chiesa di S. Maria Novella era la chiesa vecchia, la quale era volta in altra parte da quella ch'è oggi la nuova, e che nella parte laterale di essa chiesa vecchia, andando verso l'altar maggiore che rispondeva a ponente, era una cappella dalla parte di tramontana. Fate ch'egli intenda che non v'è bisogno del suo detto per sapere, né del suo attestato per credere che nella nuova fabbrica fosse posta la prima pietra del 1279, in tempo che Cimabue, che nacque del 1240, era già chiaro nell'arte, perché questo si trova scritto a lettere da speziali, per non dir cubitali, in fin per le mura; ma che ciò non ostante la cappella, dove i Greci avean dipinto ne' tempi che Cimabue era ancor giovanetto e stavasi con essi loro, era in piedi né più né meno di quello che ella oggi sia. Publ. O questa mi par cosa troppo dura a credere! Come poteva ella esser in piedi codesta cappella, s'e' non era in piedi la fabbrica della chiesa? Amic. Io vi porterò tali ragioni, ch'io penso ehe voi direte che né il Vasari né il Borghino né l'autore delle Notizie credettero o scrissero cosa contraria al verisimile; e quando io incominciassi a narrarvi tutta la serie della fondazione dell'antica e della moderna chiesa, ritrovata con lungo studio dal medesimo, voi forse lo stesso affermereste, e molto v'aggradirebbe la notizia de' varii successi che l'accompagnano, per le varie questioni, le quali ne' tempi nostri cadono sopra diverse circostanze della medesima; particolarmente intorno a qual fusse il primo luogo che fuori di Firenze fu dato a' Padri di S. Domenico e da chi; e se questo o altro fu prima concesso alla propria persona del patriarca San Francesco o no, e cose che portan materia d'assai curioso discorso. Publ. Ma io credeva che quel vostro amico null'altro scrivesse che notizie di pittori e cose appartenenti al disegno. Amic. Codesto e non altro per ora è l'assunto suo; ma voi sapete che le materie istoriche, per chiarezza maggiore della storia stessa, portan con loro talvolta necessità d; far menzione di cose che parrebbero per altro improprie: e nel caso nostro, quando egli darà fuori la vita dell'Ammannato, dove si ragiona dell'edifizio ch'egli fece della nuova chiesa di S. Giovannino de' Padri Gesuiti, voi leggerete in essa il racconto della fondazione dell'antichissima, ma picco]a chiesa, detta pure di S. Giovannino, a distinzione del tempio di S. Giovanni, che le era poco lontano. La qual chiesa fino del 1349 da Cambio Nucci e Domenico Ciampelli, come esecutori del testamento di Giovanni di Lando Gori nobil fiorentino, insieme colle figliuole di Bertino Gori eredi dello stesso Giovanni, fu cominciata a edificare dove erano alcune case di Francesco de' Medici in sul canto della via degli Spadai e Spronai e di Via Larga, e restò finita nel 1352; e vi è anche tutto ciò che da quel tempo in qua è occorso intorno alla fondazione del Collegio di essi Padri Gesuiti, fattavi per opera di persone della Serenissima Casa. Publ. Codesta sarà cosa curiosa, tanto più ch'e' mi par di ricordarmi d'aver letto nel nostro Borghino, ch'egli non ebbe cognizione di tale antica fondazione della piccola chiesa, e dubitò ch'ella tutt'altro fusse da quel ch'ell'era. Amic. Così è appunto come dite; ma lasciatemi seguitare il mio ragionamento. Publ. Come voi sentite, la pioggia, che seguita a cadere grossa più che mai, non ci vuol lasciar tornare a casa così ora; ed io all'incontro ho gran vaghezza di sentir questo racconto di queste due fondazioni, tanto più che quello della prima chiesa può essere che m'apra la mente ad intender vostre ragioni sopra quella difficoltà, che mi pare insuperabile; però narratemi in cortesia quanto mi accennaste. Amic. Questa sarebbe una digressione troppo prolissa e quasi quasi, come si suol dire, sarebbe un saltar di palo in frasca. Publ. Noi non siam qui per tesser panegirici e 'l nostro principal assunto finalmente non è altro che di finir la veglia; né cosa nuova si è che in una veglia un ragionamento porti in un altro, e quell'altro somministri nuova materia pel primo. Però dite pure quanto sapete delle accennate fondazioni, che io l'ascolterò con gran gusto. Amic. Contentatevi che io per ora risponda alla vostra obiezione, perché io non abbia a dimenticarmi, o pure col restar della pioggia io non abbia a partire e lasciare in asso quel che più importa. Poi, se avanzerà tempo, non solo vi discorrerò della fondazione di S. Maria Novella, ma di quell'altra ancora, perché per lo continovo praticare che ho fatto coll'autore nominato e per la curiosità colla quale io ho sempre cercato di vedere i suoi studi, m'è restato tanta materia in capo da poterci far sopra altro che una veglia intera. Publ. Io accetto [la] vostra promessa per a suo tempo; però portate il discorso come vi piace. Amic. Voi sentiste poc'anzi quanto io v'accennai, cioè che ne' tempi che fu messa la prima pietra della nuova fabbrica, la cappella dove avevan dipinto i greci maestri era in piedi né più né meno di quello ella si fusse avanti alla demolizione della chiesa vecchia. La ragione è questa, perché ella fu così lasciata a posta; onde quella che oggi noi vediamo, che è la prima in cui s'incontra chi esce dal coro per andare verso il cimitero de' frati, è quella stessa che fu nella vecchia chiesa; con questa differenza che, dove allora ella tornava laterale perché l'altar maggiore era dalla parte di ponente e 'l fondo da levante, oggi ella torna in fronte della navata sinistra della nuova ed ha il tergo a tramontana: e là dove a proporzione della chiesa vecchia questa cappella era grande, oggi, in proporzione della grandissima chiesa nuova, ella comparisce aggiustatamente piccola; e se egli vi paresse cosa strana a credere e anche inverisimile che (dovendo fare una fabbrica sì grande) coloro che ne furono architetti avessero avuto a salvarne sì poca parte dell'antica, ritrattate pure a vostra posta questo pensiero, perché agl'intendenti del modo di fabbricare ella è cosa verisimilissima; anzi sappiate che è universale intenzione di coloro che fabbricano intorno al vecchio, di servirsi di quello il più che possono, e fino a quel segno che questo non alteri loro il pensiero della nuova fabbrica; anzi fra gli architetti reputasi più accorto colui che di quello sa valersi nelle nuove fabbriche, massimamente quando alcuna morale necessità o'l risparmio il richiedono. Sovvengavi, nel caso nostro, che ciò poté seguire prima per lo rispetto che essi ebbero a quelle pitture, tali quali ell'erano, e molto più perché la struttura e 'l posto della medesima vecchia cappella non alterava punto il loro nuovo concetto; né crediate già che questa fusse la prima volta, né sia per esser l'ultima, che dovendosi alzar fabbriche nobilissime, altri si serva di qualche parte vecchia, ed a quella tantoquanto adatti e conformi il rimanente dell'edificio. Riducetevi a memoria quanto occorse nell'edificazione del palazzo di piazza e anche con quanta sproporzione egli fu disegnato da Arnolfo, solamente perché nel bel mezzo di esso tornasse la vecchia torre de' Foraboschi, ed insieme con essa alcune case comperate dal Comune per tale effetto, e che il nuovo fondamento non toccasse punto il suolo delle già case degli Uberti. Troppo mi allungherei s'io volessi darvi di simili cose esempli nell'antico; bastimene uno occorso nel moderno, anzi ne' nostri tempi. Vi par egli che chi prese ad aggrandire, rimodernare e con belli ornati di pietre arricchire la parte interiore della nostra chiesa della Badia di Firenze, pigliasse a far cosa più grande e più nobile dell'antica e diversa in tutto e per tutto nella situazione della testata e del fondo e di tutte le altre parti, come fu fatto a S. Maria Novella? Certo che sì, perché dove l'antica avea l'altar maggiore nel luogo dove oggi è il sepolcro del Conte Ugo, cioè da levante, ed il coro al modo monastico in fondo dalla parte di ponente, questa oggi ha il maggior altare a mezzogiorno ed il fondo a tramontana; e così discorrete dell'altre parti; e quella cappella in volta, che voi vedete dedicata a S. Mauro monaco di quell'ordine, la quale già era il coro in fondo alla chiesa e che oggi così bene si adatta lateralmente al disegno di questa nuova, è quella stessa che prima era coro, avendone però Matteo di Marco Segaloni, che del tutto fu architetto, per dilatar più il voto che serve oggi di braccio destro della croce di essa chiesa, tagliata quella poca parte davanti e non più, lasciando le tre mura di testa e laterali colla loro porzione della vecchia volta interamente illese, senza nulla toglier del bello della cappella medesima e della nuova architettura. Tornando ora alla nuova chiesa di S. Maria Novella, se alcuno mal pratico delle cose architettoniche vi dicesse che la cappella non può esser quella antica, perché l'ordine de' suoi laterali pilastri e de' capitelli e la sua volta in sesto acuto son quei medesimi di che è composta tutta la nuova struttura, non rispondete loro né bene né male; perché si sa ormai molto bene per ognuno, con quanta facilità si possa sottoporre ad un arco già fabbricato nuova colonna o pilastro, che lo regga tutto. O pensate or voi s'egli sia facile il far lo stesso, senza distruggere il sodo che lo regge, ma solamente adornarlo nell'esterior parte con pilastro o colonna, come seguì nel caso nostro per unire al nuovo l'ordine vecchio; ed è notissimo altresì che la forma del sesto acuto non solamente usavasi ne' tempi dell'accrescimento di quella chiesa, ma fino da centinaia d'anni innanzi, e di questo non solamente ne son pieni i libri, ma infinite fabbriche di quegli antichissimi tempi eziandio lo dimostrano. Queste cose ho io voluto narrarvi prima di passare avanti col discorso, per mostrarvi che l'asserzione dell'autore delle Notizie non è improbabile; e già sentiste che il suo detto non deriva da sua propria immaginazione, ma egli tanto disse quanto trovò scritto prima dal Vasari, poi dal Borghino e da altri molti, e lo stesso lesse nella Cronaca di quel Convento, le cui parole egli registrò nel margine dell'opera sua, e son queste appunto, che io vi leggo. Parla dell'imposizione della prima pietra fatta dal Cardinale Latino: Quod quia die sacra illi Evangelistae dicata effectum est, primum ei altare dicatum esse voluit. Fuit autem illud id, quod in eo primum erat sacello, quod nunc a choro egressis et ad Fratrum Coemeterium proficiscentibus ad dexteram primum occurrit; quod post multos mutatos Dominos, ad Gondiorum, quos de Palatio dicunt, devenit familiam. Ma lasciamo da parte la Cronaca, che fu scritta quasi trecento anni dopo il seguìto, e perché l'autore di essa, che fu fra Modesto Biliotti, uomo per altro di gran dottrina e bontà, quanto andò più sicuro nelle cose ch'egli trasse da buone ed autentiche scritture, tanto andò guardingo e cautelato nell'affermare in ciò ch'egli ebbe per le sole tradizioni, onde ci lasciò d'assai cose in dubbio. Io vi dico che il mio autore, e forse anche gli altri, hanno cavato dal Vasari, il quale asserisce avere avuta la notizia di questa fondazione da un libro antico, in cui si trattava de' fatti di Gaddo Gaddi pittore, che morì nel 1312, cioè trentaquattro anni dopo che fu posta la prima pietra, ed in esso ancora si ragionava dell'edificazione della medesima chiesa; il qual libro poté essere stato scritto circa a trecento anni innanzi ch'egli scrivesse. Di più, che quello che il Vasari scrisse di Cimabue, disse averlo cavato da alcuni ricordi di pittori antichi; la qual parola " ricordo " vuol dire scrittura fatta nel tempo dello stesso Cimabue, perché regolarmente non si dice pigliar ricordo, se non di quel che segue alla giornata; altrimenti non si direbbe così, ma si passerebbe sotto la voce comune di scrittura, narrazione, trattato, istoria o simile. Al che aggiungete che, se voi aveste occhio adattato al discernimento dell'ultime differenze che si ravvisano fra antiche pitture, come l'ebbe il Vasari, ed anche contentatevi ch'io dica come l'ha il mio autore, che per servire a persone d'alto affare, ha fatta di ciò quasi particolar professione, voi direste due cose: la prima, che quelle pitture son di maestri greci; la seconda, che è tanta grande la differenza che passa fra le pitture greche e quelle che poi fece Cimabue, che quelle sono a queste tanto inferiori in bontà, ch'è forza (astraendo da ogni altro racconto istorico) una delle due cose affermare: o che quelle furon fatte avanti che venisse in luce l'operar di Cimabue, come ha detto il mio autore, o che coloro, secondo voi, dopo aver fabbricato una delle più belle chiese d'Europa, con tante spese, con assistenze de' primi ingegni della città e con ricchissimi doni del Comune di Firenze e de' particolari cittadini, e senz'alcun'ombra di risparmio, solamente nell'ammettervi pittori furono i più goffi uomini del mondo, mentre si servirono di maestri di minor valore rispetto ad altri di quei tempi, che non istimeremmo ne' tempi nostri, stetti per dire a rincontro de' valenti uomini d'oggidì, coloro che a' nostri lavoratori dipingon le colombaie. E questa ragione a mio parere ed a giudizio di chi ha, com'io dissi, occhio erudito, vale assai più che cento dubbiose istorie, se pure voi volete dar titolo di dubbiosi a' manoscritti citati dal Vasari. Quindi doverete voi ricavare che il mio autore non operò giammai sopra le fondamenta del Vasari, senza prima farne il tasto; e piantò suo edificio sopra quelle solamente, che egli conobbe arrivare al sodo. Publ. Mi par ch'il discorso vostro cammini con molta pienezza alla provazione del vostro intento, e conosco ancor io che quantunque sia da prudente il non correr subito ad accettare una cosa per vera, contuttociò sia altresì cosa da temerario il voler subito condannarla per falsa; restami contuttociò qualche difficoltà sopra la fede che debba aversi a' manoscritti citati dal Vasari, parendomi (parlando però in generale) che per chi vuole scrivere istorie e dar fuori nuove notizie, il valersi de' manoscritti privati non sia cosa troppo sicura. Amic.Voi non potevate accomodar mai meglio al vostro discorso quella parola "parlando in generale", e mi avete tocco dove mi doleva; anzi sappiate di più che, se mi verranno mai sotto l'occhio l'opere che abbiano loro appoggio a' privati e non pubblici manoscritti, i quali non abbiano quei requisiti che io m'immagino dovere aver tali scritture per far provazione moralmente certa, io per me non crederò loro mai nulla; e la ragione è questa. Io ho fatto un'osservazione, che la madre natura, liberalissima dispensatrice de' doni suoi, non si astiene mai di quegli diffondere a moltissimi senz'eccett[u]azion di persone; e così noi veggiamo essere state date inclinazioni all'arti più nobili e scienze più ragguardevoli non pure alle persone d'alto lignaggio, ma a quelle eziandio d'umilissima condizione; e fra queste tali non solo a coloro, a cui ella donò non poca chiarezza d'intelletto, ma agl'insipidi e melensi: e così se voi darete un'occhiata a tutte le professioni anche nobilissime, voi troverete persone ardenti di desiderio di quelle apprendere, quelle del continuo professare senza mai saziarsi, e contuttociò in nessuna di esse fare giammai un passo di lodevole profitto; onde non v'è arte, non v'è scienza, in cui non si scorgano goffissimi professori, i cui detti, i cui fatti per altro non servono agl'ingegnosi chc per ricreazione e per riso. Quello che occorre nel genio all'arti e alle scienze, occorre eziandio nel genio istorico; anzi osserva Aristotile che questo s'incontra assai più frequentemente nell'universale degli uomini, e lo prova con quella bella riflessione, che tutti i fanciulli per ordinario portano dal ventre della madre il desiderio d'ascoltar novelle, le quali altro non sono in sustanza che favolose istorie; ond'è ch'io punto non mi maraviglio di ciò che pure io medesimo ho veduto cogli occhi proprii nello scorrer diversi archivi e librerie, cioè dell'essermi passati per le mani antichi diarii scritti da vilissimi artigiani, distesi con quantità e varietà di circostanze e apparentemente con grand'esattezza e in modo che voi avreste detto ch'e' fossero usciti dalla penna di un qualche diligentissimo istorico: e pure coll'inoltrarmi in lor lettura ho conosciuto chiaramente non aver tali notizie avuto maggior fondamento che quel tanto che la goffezza dell'intelletto di colui che scrisse andava alla giornata raccapezzando da' discorsi della piazza o da' cicalecci de' suoi lavoranti. Or perché questi manoscritti siano antichi e pieni di notizie e di circostanze, sono eglino perciò degni di fede? Sarebbe un debole cervello quegli che il credesse. Publ. Voi mi fate ricordare a questo proposito d'un tal forestiero che' avendo fatto un lungo viaggio ed essendo anche passato per queste nostre parti, perché egli aveva anch'esso la fregola dello scrivere, volle farne di suo pugno una descrizione in forma d'itinerario, allargando sua scrittura per lungo giro a notizie de' luoghi, dell'usanze e simili; e molto disse anche delle cose nostre e poi lo diede alle stampe. Il perché venuta quest'opera alle mani de' pratici daddovero, e assaporate le notizie, fu avuto per certo e fu concluso che buona parte delle medesime fussero state quelle appunto ch'egli aveva ricavate luogo per luogo, sedendo a tavola dall'oste o locandiere, dopo aver fatto seco il conto, o dal vetturino o dal barcarolo; ed egli dell'opera sua null'altro ricavò che danno e vergogna. Amic. Ben sapete! Bisogna dunque concludere che gli antichi manoscritti, toltone sempre le pubbliche scritture, allora sieno meritevoli di fede quando eglino averanno le qualità che secondo me debbono aver per tali. Publ. E quali saranno queste qualità? Amic. Io vi dirò quel ch'io sento e anche ve ne apporterò qualche ragione, sottoponendo mia sentenza a chi più e meglio di me conosce. I. Primieramente, che le cose scritte sieno verisimili, cioè ch'elle non contengano improprietà, ond'elle mostrino d'aver più del favoloso che del vero, e tanto più se si tratterà di fatti speciosi e grandi, e operati in pubblico; perché di cose tali per ordinario gridando loro età, dura cosa è a credere che debbasi in tempo attendere di esse la notizia dagli scritti di sola e privata persona. II. Che tale sia la scrittura, che mostri esser fatta con buon metodo e col concetto di scriver notizie istoriche, perché ciò che manca d'ordine e d'una certa finale intenzione, non può nemmeno credersi fatto con applicazione e diligenza. III. Che le notizie non possano in parte anche minima esser convenute di bugia, perché è noto che chi dà per certa cosa che egli certo non sa, non è veritiero; in proposito di che soleva dire Monsignor Lodovico Incontri volterrano, gentiluomo pratichissimo e grand'amatore di queste arti, che più ammirava il cimento di chi si poneva al mestiero di maneggiar penna, che ogni altro qual si fosse per altro affare; conciossiacosaché questi obbligavasi a dar testimonianza col proprio pugno contro se stesso, non solo alla propria ma anche all'età futura, di sua poca sincerità ogni qualvolta gli venisse fatto il fallire in cosa anche di non gran rilievo. IV. Che siano note o nome, o professione, o altre qualità di chi scrisse, fino a quel segno che bastar possa per far concetto di sua persona; perché molti molte cose dicono, e molti molte cose scrivono, ma non gli scritti come scritti, ma gli uomini come tali e tali si guadagnano la fede appresso agl'intendenti; e quando alcuna di tali circostanze mancasse, supplirà in gran parte il sapersi che buoni scrittori di tali private scritture abbian fatto capitale ed abbian loro prestata fede; ma l'essere il primo a romper questo guado non è da tutti. V. Che chi scrisse, l'abbia fatto di materie toccanti sua cognizione: e qui osservate che il nostro eruditissimo Vincenzio Borghini prestò fede a quanto il Villani scrisse della moneta fiorentina, perch'ei sapeva che quest'autore era stato de' maestri della Zecca. VI. Che appartengano a cose de' tempi di chi scrisse; e qui fate reflessione che lo stesso Borghini, sebbene non disprezzò affatto alcune cose di Ricordano Malespina e dello stesso Giovanni Villani, dico delle non seguite a' tempi loro, contuttociò attennesi alla parte del molto dubitarne e non ce le diede per approvate. VII. Che contengano racconti di cose successe nelle patrie loro, o di quelle delle quali possano aver avuta facilmente notizia; perché se voi leggeste mai l'opere di Strabone e di Stefano, autori tanto rinomati, avrete trovato ch'e' furono esattissimi nella descrizione della Grecia e del levante, ma non così diligenti ne' luoghi di ponente, e in questi anche assai più scarsi e per avventura non così accurati nelle particolarità minute, che bene spesso apportan gran luce al racconto: ond'è che quanto maggior fede si deve loro intorno a' luoghi da loro frequentati, tanto minore intorno a quegli ch'e' non praticarono né viddero mai. Or fate vostro conto e dite così: se tanta discrezione debbesi nel prestar fede agli scritti de' grandi autori, quale doverà aversi in dar credenza a' semplici e privati manoscritti, che talvolta e anche bene spesso trovansi essere stati lasciati da uomini goffi, soverchiamente creduli e che anzi averebbero dovuto a loro stessi (stetti per dire) occultare i propri pensieri e debolezze, che far di quelli a' posteri testimonianza? Publ. Io non posso non approvare vostra dottrina e anche, per dirvela a un tratto, io stesso, mentre voi andavate parlando, applicava il discorso a' manoscritti che voi diceste aver citati il Vasari; e veramente io gli trovo corredati quasi di tutte quelle qualità che voi vorreste ne' manoscritti privati, per l'effetto di potersi loro prestar fede. E primieramente che essi contengano cose verisimili non si può dubitare, per le ragioni da voi addotte in principio, cavate dalla qualità dell'antiche pitture, ed altre; ed anco dall'essere state accettate dal Vasari, il quale potettele aver riscontrate col trattato ch'egli lesse della nuova fabbrica di quella chiesa, cosa che non lascia di accrescer loro qualche credito. Vi si ravvisa anche la seconda condizione dell'intenzione di chi scrisse; perché fu in trattato, e non cosa detta incidentemente e a caso portata. Della bugia non costa, né può costare, se non se ne facesse vedere positivamente il contrario; e questa sarebbe quella ricevuta, che voi poc'anzi domandavate prima di voler confessar la partita, che è il terzo attributo. Quarto, s'e' non costa del nome dello scrittore del ricordo e del trattato, costa di loro professione, che era di cose di disegno, perché furono pittori; e questo porta con sé anche il quinto, perché trattarono di cose di lor mestiere. Che poi fussero fatte ne' tempi in circa delle cose seguite, pare che di sopra l'abbiate mostrato assai chiaro, e questo è il sesto. E finalmente, che chi scrisse fusse di questa patria, dove le cose occorsero, non pare che da chicchesia debba recarsi in dubbio senza nota di troppo gavilloso; tanto più nel caso nostro, nel quale concorrono circostanze bastevoli, anzi soprabbondanti, a fare una concludente prova di loro sussistenza. E per dirvela dal primo all'ultimo, io concludo che, siccome chi mastica poco e male, fa cattivo nutrimento, così chi vuol dar giudizio senza ben pensare e vedere, e tantopiù senza sentire chi operò, altro non fa che spender parole al vento, offuscar la verità, empiere a sé e ad ogni altro la testa di fanfaluche, e metter se stesso in pericolo d'esser creduto invidioso del bene altrui. E ponghiamo oramai fine a questo discorso, che mi servirà per avviso di andare un'altra volta più circospetto; perché da questo io cavo che chi non ama di rimanersi imbrattato, non dee pigliarsi gusto di scorbiare il foglio di chi ha in mano la penna e 'l calamaio. Amic. Dovrete dunque voi per mio consiglio, per non tirarvi addosso questo danno, nel comparir che farete in pubblico tenervi lontano da sì fatte chiacchierate. A questo segno giunse il ragionamento fra A mico e quella gente, e intanto la pioggia durava; quando, essendo già l'ora ben tarda ed essendosi partiti tutti i garzoni, il maestro di quella bottega cominciò a fare spallucce, e quasi quasi, se non fosse stato per lo rispetto, si sarebbe accomodato a serrare; il che osservatosi da Amico e dagli altri, dopo un breve discorso fu risoluto che ognuno colla scorta di sua lanterna, così pian piano e sotto le grondaie se n'andasse a casa, per tornare altra volta nel luogo stesso a sentire il discorso delle due fondazioni, che poi si fece nel giorno appunto che allora fu concertato. Io non lascerò di dar fuori anche questo in altra occasione, tale quale lo stesso Amico (che sia in Cielo!) a me lo raccontò come avuto dal medesimo autore delle Notizie; il che non fo adesso, perché pur troppo fin qui penso aver tediato il mio lettore.
Bibliografia: La veglia. Dialogo di Sincero Veri, Lucca 1684; Firenze 1690; Raccolta di vari opuscoli sopra varie materie di pittura, scultura e architettura, Firenze 1765, pp. 25-64; F. Baldinucci, Delle notizie de' professori del disegno..., Firenze 1767-1774, XXI, pp. 39-l0l; Opere di Filippo Baldinucci, Milano 1808-1812, XIV, pp. 205-270; BAROCCHI 1975, pp.498-542.
Note: