Numero d'ordine:
Data: 1 03 1683
Intestazione: FILIPPO BALDINUCCI A RUBERTO PANDOLFINI
Segnatura: Firenze, Biblioteca degli Uffizi, n. 264.
Fonte: Illustrissimo Signore e Padron mio colendissimo, l'avere io in mille occasione esperimentato l'ottima disposizione che la bontà di Vostra Signoria Illustrissima si è degnata avere in beneficare la mia persona senz'alcuno mio merito, mi rende animoso ad esserle importuno con questa in cagione di cosa che, siccome mi tiene in straordinaria apprensione, così mi necessita ad implorare l'aiuto e favore di Vostra Signoria Illustrissima non pure come mio padrone benignissimo o come principale ministro del Padrone Serenissimo, ma come signore pieno di zelo d'ogni giustizia. So che troppo son per tediarla, ma so ancora quanto si estenda la carità di Vostra Signoria Illustrissima e la costanza dell'animo suo in esercitare le parti a sé commesse a favore di chi n'è bisognoso come sono io al presente. Saprà dunque Vostra Signoria Illustrissima come due anni sono, nel tempo ch'io aveva sotto il torchio il principio della mia opera cronologica intitolata Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, Ferdinando Leopoldo Del Migliore mi fece pregare per mezzo del Signore Capitano della Rena ch'io volessi far menzione con lode d'un certo suo libro intitolato Firenze illustrata, ch'egli era per stampare e ch'io sento che gli stampi tuttavia, ed io per far cosa grata a quel cavaliere e a lui, non avendo ancora finito di tirare la vita di Giotto, quando fui per parlare di sua morte, feci la menzione desiderata del seguente modo, come in essa mia opera p. 51 verso 27 si legge: "e coll'onore dovuto alla memoria d'uomo sì glorioso fu nella mentovata chiesa di S. Reparata sepolto, privilegio che (secondo quello scrive Ferdinando Leopoldo del Migliore, parlando di Giotto nella sua da ognuno desideratissima opera della Firenze illustrata, ch'egli pur ora va stampando) fu riputato per singolarissimo e ch'a nessuno davasi in tal chiesa sepoltura che non fusse stato oltre modo benemerito del Comune". Non fu prima quella mia fatica uscita alla luce, ch'il Migliore, per benemerito della buona volontà avuta da me in servirlo, cominciò a vociferare per la città contro di me e contro l'opera mia, dicendo ch'io non dovevo toccar materie d'antichità, mestiere proprio suo, e ch'a lui solo toccava a trattar simili materie; che né tampoco dovevo io discorrere di cose di disegno, et in varie occasioni che se li porgevano per le publiche botteghe dava fuori questi e altri sentimenti con tanta petulanza, quanta bastava per nauseare ogni stomaco più gagliardo; tanto che i medesimi che lo sentivano, ne facevano a lui doppo le spalle le risate. Lascio da parte i concetti che egli dava fuori parlando con persone letterate, che bene facevano conoscere che questa mia fatica col prevenir la sua gl'era stata un colpo intollerabile. Detti poi fuori il Vocabolario del disegno, il quale non si può dire quanto lo scottasse per avervi trovato moltissime erudizioni antiche tratte da quei libri e publiche scritture che forse non eran venute sotto l'occhio suo. Quel che egli si dicesse in particolare non lo so, so bene ch'egli prese un pretesto di querelarsi di me, perché alla voce Torre si trovavano scritte le seguenti parole, come in detto vocabolario c. 169: "Del quale (cioè contratto) m'è stata data cognizione da Giovanni Renzi, dottore dell'una e dell'altra legge e nell'antichità nostra etiamdio così perito, che ove di toscani antiquarii si ragioni, puote meritamente aver luogo coi migliori". Apprese dunque il Migliore che la parola migliori, essendo dallo stampatore stata compitata colla maiuscola, significasse la sua persona e si dichiarò che io gl'aveva fatto torto a far paragone fra lui e 'I Renzi. Concedasi per ora questo inganno del Migliore e sappiasi ch'io non avrei saputo, volendolo anche fare a posta, apportargli maggiore onore che assimigliarlo ad un uomo di tutta bontà, di buona nascita e, quel ch'è più, conosciuto da me per mille esperienze tanto pratico nell'antichità nostre' quale è detto Renzi, e tale ch'io per me, toltone il nominato signor Capitano della Rena o altri che vi fussero simili a lui, non conosciuti, non lo cambierei con nessuno. E queste sono tutte l'ingiurie ch'ha ricevuto da me il Migliore, del quale io ho sempre parlato come deve parlare una persona ben nata cristiana. Non ha egli già fatto così di me, ma poco o nulla stimerei questo, se la cosa fusse finita qui. Sappia dunque Vostra Signoria Illustrissima come, più mesi sono, io venni in cognizione indubitata ch'egli nella sua opera mi avesse nominato non per modo di citar le mie cose o lodarle, come fec'io con lui, ma per appiccarmi il dente in tutti quei luoghi e in tutti quei modi ch'ei seppe, con invettive e disprezzi tutti vestiti d'un certo spirito d'una straordinarissima gelosia, e di parergli che nessun altro fuori di lui possa aver visto cosa alcuna e, quel ch'è peggio, ragioni fievolissime, atte solo a intorbidar la verità, senza concluder nulla. Non guardò d'esser anch'egli cittadino di questa patria, che la mia opera tendesse all'onorevolezza della nostra città e che la medesima fu accettata sotto la protezione del Serenissimo Gran Duca, del quale tutti siamo sudditi, e che la medesima Altezza Serenissima per onorarla il possibile si affaticò per ottenermene privilegii di tutti i potentati d'Europa, mi provvedde di libri, con quel più che potrei dire in tal particolari. E così, in luogo di unirsi con me per gloria maggiore della patria e del Principe Serenissimo anche in quelle cose dove fusse potuto, secondo lui, cadere alcun dubbio, come deve fare ogni buon cittadino, si messe a scorbiare a mal modo senza apportar ragioni che nulla valessero. Non fece reflessione che quest'opera, benché piccola nel suo principio dato in luce, è vastissima, perché si estende a tutti i migliori professori del mondo, e così, con diportarsi in quel modo, par ch'egli abbia preteso o, se pure non l'ha preteso, pare che la medesima dal suo modo d'intorbidar rimarrà strozzata e trucidata fino nella culla, se pure sarà prestata fede alla sua opera. Intese ch'io ebbi queste cose, mi consigliai con teologi, con letterati e altri uomini di gran senno, da i quali fui consigliato a prevenire il colpo colla difesa e così, sempre dentro a termini letterarii e stando fra le leggi cristiane e civili, composi una scrittura, la quale per risparmio di spesa feci stampare in Lucca, della quale mando un esemplare a Vostra Signoria Illustrissima, e da essa vedrà non pur la fievolissima proposizione del Migliore, i modi affettatissimi e l'ingiuria che fa a me e alla mia opera, che pur va fuori con sì alta protezzione, e la modestia con la quale si parla da me in essa scrittura, stampata non solo senza nominarlo ma con occultare in ogni modo possibile il suo nome. Questa opera dunque ho io procurato che sia veduta a questo puro fine, cioè ch'egli, riconoscendo in essa il suo mancamento, per non far debitore se stesso di quanto essa contiene, abbia tempo retrattarsi, già che egli non ha ancora pubblicata la sua, e così ne segua questo bene o favore della patria nostra e per onore de' virtuosi di quella, che non escano così spesso alla luce cose che da noi medesimi sieno stimate favole et insussistenti. Questa mia buona intenzione, per quanto mi vien referito da chi lo sa, non solo non ha conseguito l'effetto desiderato, ma l'ha confermato sempre più ne' suoi sentimenti, e Dio sa com'egli sarà per trattarmi ne' pochi fogli ch'io sento che gli restano ancora a stampare. Io per tanto, non solo per desiderio ch'io tengo che la protezione del Prencipe Serenissimo mi frutti quanto mi deve fruttare per buona giustizia, e non si metta quest'uso in Firenze di darsi così malamente in su le dita gli scrittori, e perché non sia apportato danno alla mia patria, ma perché una fatica sì grande, ch'è per costarmi (stetti per dire) la vita, non mi sia tanto ingiustamente messa in terra a pena nata; sono a supplicare la somma bontà di Vostra Signoria Illustrisima a degnarsi, con ogni sua comodità, prima a leggere la detta mia nuova scrittura, nella quale vedrà le mie ragioni che da questi signori Accademici della Crusca sono state stimate invincibili, e successivamente, se così le parerà che sia giusto, nell'atto di succeder quella del Migliore, di fare togliere via il mio nome, l'invettive contro di me, dell'opera mia e tutte quelle cose che non vi fanno altra parte se non di diminuire la fede a lui et a me con poca reputazione della patria nostra, per uscir così immaginate e tolte da fievoli conietture e non punto provate. So che a ognun che scrive è lecito il dire il suo parere, ma con modestia e non a conculcazione di quel de gl'altri, e che quando si mette la bocca nelle cose publiche, massimamente della propria patria, non debbano né l'invidie né le gelosie far sì che resti in dubbio la verità, sì come seguirebbe nel caso nostro, e però torno a supplicare Vostra Signoria Illustrissima di volermi onorare della Sua efficacissima protezione in riguardo non di me, ma della propria benignità sua e delle circostanze sopra accennate, le quali io non posso dubitare che non la meritino; e pregandola di condannarmi se troppo ho ardito di incomodarla, resto, facendole umilissima riverenza, di Vostra Signoria Illustrissima ubbidientissimo devotissimo e obligatissimo servitore Filippo Baldinucci Di casa, li marzo 1683. All'Illustrissimo Signore e Padrone mio colendissimo e Signor Senatore Ruberto Pandolfini Sue mani
Bibliografia: BAROCCHI 1975, pp. 543-548.
Note: