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Data: 1 01 1691
Intestazione: LEZIONE DI FILIPPO BALDINUCCI NELL'ACCADEMIA DELLA CRUSCA IL LUSTRATO DETTA DA LUI IN ESSA ACCADEMIA IN DUE RECITE NE' GIORNI 29 DI DICEMBRE E 5 DI GENNAIO 1691 AL SERENISSIMO PRINCIPE GIOVAN GASTONE DI TOSCANA
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Fonte: Serenissimo Signor Principe, l'onore che Vostra Altezza Serenissima mi fece colla sua presenza e 'l grato accoglimento col quale si degnò di riguardare questa mia lettura accademica intorno all'antiche e moderne pitture, non isdegnando di darle luogo fra' suoi più nobili e alti pensieri, mi rende ora animoso a mandarla alla pubblica luce, sicuro che non potrà ella temere i rigori de' critici più severi, mentre comparirà ornata del pregio della benigna approvazione di Vostra Altezza. Di Vostra Altezza dico, gran protettore di questa bell'arte siccome d'ogni altra più nobile, che valendosene a miglior uso in questa sua più florida età, colle prime linee che atte sono a circoscrivere la forma d'un grande, cioè colla pietà e santi costumi e colla bella letteratura, già ha saputo con ottimo disegno far comparire espresso in Lei medesima un ritratto al vivo de' suoi sublimissimi progenitori; alle quali bellissime forme aggiungendo l'Altezza Vostra l'ottimo colorito d'una singolare affabilità, bontà e gentilezza, fa sì che a gloria maggiore de' Serenissimi Antenati di Vostra Altezza ed a consolazione degli amatori d'alta virtù, fino nella prima occhiata veggasi vagamente spiccare una vera e maravigliosa idea d'un perfettissimo principe, quale è Vostra Altezza. Resta ora a me il supplicare l'Altezza Vostra ad esercitare tali apprezzabilissime sue doti nel conservare lo stesso gradimento non solamente di questa mia povera fattura, ma eziandio dell'urnilissimo ossequio col quale gliele presenta chi si gloria d'essere di Vostra Altezza Serenissima umilissimo servo Filippo Baldinucci Se le pitture di Zeusi, Parrasio, Timante, Apelle c Protogene, e d'altri stimati per comune consentimento di tutti gl'istorici i primi lumi dell'arte negli antichissimi tempi, giungessero in bontà e perfezione a quelle che ne' moderni - dico nel passato secolo - il gran Raffaello, Tiziano, il Correggio, Paolo Veronese, i vecchí Bassano e Palma, i nostri Andrea del Sarto e Fra Bartolommeo, il Cigoli, Annibale Carracci ed altri (se pure si trovarono a questi simiglianti) nel presente secolo fecero vedere di lor mano. Per rispondere a tal quesito, virtuosissimi Accademici, m'è d'uopo il portar mio discorso per tante vie che, a fine ch'e' non riesca a me contro ogni mio desiderio il molto allungarmi nel dire, ed a voi il troppo annoiarsi di mio ragionamento, m'è forza il lasciare esordi e preambuli, e 'n sulla bella prima venire al punto. Ma avanti che a sì fatta questione da noi si proceda, egli è necessario il riconoscere se veramente l'antichissime pitture, ch'io vi proposi, furono di sì eccellente bellezza e bontà ch'elle potessero o poco o molto aver luogo nel nostro quesito ed accostarsi a far paragone colle moderne, essendo notissimo ad ognuno che sia punto pratico d'antichità, che in ogni tempo per alcuna arte o scienza, quando universalmente per lo mondo e quando in qualche parte del medesimo, sono state etadi grosse, nelle quali ben potea dirsi che la sublimità d'alcuna arte o scienza non fusse tale quale ella fu decantata, ma tale solamente quale ella apparve agli occhi poco eruditi di coloro che tale la giudicarono. E che ciò sia vero, troppo ad evidenza il dimostra quello ch'io nel nostro proposito sono ora per dire. Nel secolo del 1300 non solamente gridarono i popoli in commendazione delle pitture del famosissimo Giotto nostro cittadino, per cui risorse la quasi morta pittura, e di quelle di Simone e d'altri discepoli di lui; ma insieme con essi, tre de' più giudiziosi e de' più sapienti uomini che allora vivessero al mondo, dieron loro tante lodi ch'io non so se tante darebbersene a quei gran maestri moderni ch'io vi nominai poc'anzi. Rammentatevi come ne cantò il nostro Dante, di quanto ne cantò il Petrarca, e di quanto ei ne scrisse; e di quanto ne scrisse il Boccaccio; e pure son già presso 300 anni che l'opere di costoro incominciarono a perder di credito, ed oggi quelle poche, a cui ha perdonato il tempo, non godono altro pregio che dell'essersi mantenute vive quasi per quattro secoli interi. Ciò supposto per vero, qual ragione ci forza a dire che le pitture degli antichissimi maestri fussero veramente belle e tali da potere entrare in contesa colle nostre moderne? E come volete voi darvi a credere, risponderà alcuno, ch'elle non fussero veramente belle e bellissime, mentre noi abbiamo per testimonio degli storici di quei tempi, che la stima loro giunse a segno di non aver prezzo che agguagliar le potesse? E oltre ad altri molti esempli che intorno a ciò potrebbero addursi, noi sappiamo che all'imperadore Tiberio (SVETONIO, in Vit. Tib., c. 44.) fu lasciata per testamento una tavola, in cui avea Protogene rappresentata Atalanta mentre in atto troppo meno che onesto trattenevasi con Meleagro; e questo con aggiunta di condizione, cioè che quando l'occhio dello 'mperadore dal concetto, che nel quadro appariva espresso, offeso rimanesse per modo che il volesse recusare, allora fussergli dati in contraccambio mille grandi sesterzi, che secondo il comunemente accettato computo fanno il numero di ventincinquemila romani scudi; condizione in vero vanamente apposta da chi pure potea saper la lascivia di Tiberio. Ma che che si sia di questo, egli stimò tanto quella pittura, che la grossa somma della moneta ricusando, al quadro s'attenne e quasi come sacra suppellettile diedegli luogo nella propria camera. Ma non abbiamo noi da altri istorici, che d'alcuna delle pitture di gran maestri di quei tempi non era stimato bastante ogni prezzo, quando anche fusse stato il valore d'una intera e gran città? e che Zeusi, dopo avere infinite ricchezze acquistate, a termine si ridusse di dar l'opere sue in dono, parendogli che ogni benché inestimabile tesoro datone in contraccambio troppo male s'adattasse a lor valore? Io rispondo che potevate voi anche dir di più, cioè che tale fu il concetto che fu avuto di quelle pitture, che non vollero gli storici lasciare che nella dimenticanza perisse, stetti per dire, né meno una pennellata di quegli artefici; ma che di tutte fusse tramandata notizia alla posterità. Io però né a questa né a quella ragione punto mi rendo, come quegli che ben so che ogni cosa nuova, in quello stesso ch'ella è nuova, molto piace ed a proporzione del piacer ch'ella fa, ella è anche apprezzata; onde gran fatto non fu che un modo di dipignere per avanti per più secoli non più veduto, fusse da' grandi ricompensato con oro in abbondanza e dagli scrittori col consegnarne la memoria all'eternità; sicché io mi resto tuttavia nello stesso dubbio. Io so che gli antichi pittori avevan l'esemplo delle belle statue de' lor tempi. So ancora che le bell'arti di pittura, scultura e architettura, comecché tutte sien figlie del disegno, hanno quasi sempre camminato d'un medesimo passo; e mentre, senza partirmi dalla mia patria, io mi volgo al secolo del 1400, io trovo che essendo quest'arti per l'Europa tutta giaciute per ben cento e quarant'anni dopo il loro risorgimento in istato miserabilissimo, finalmente tutte e tre in un tempo stesso in questa città di Firenze guadagnaronsi l'ammirazione anche degli occhi di miglior gusto; e ciò fu mediante il gran Brunellesco nell'architettura, il tanto rinomato Donatello nella scultura, e 'l valoroso Masaccio nella pittura. Sì, ma ciò concesso per vero, e' non vien provato per questo che, siccome all'opere di quei tali (che pure furon credute giungere in bellezza all'ultimo segno) molto e molto particolarmente alle fatte in pittura è stato dipoi aggiunto di perfezione, così non possa dirsi che anche le pitture degli antichi non fussero passate più oltre che tanto; e conseguentemente, ch'elle avessero potuto risplendere assai più per lo parere che per l'essere. Io mi sento rispondere che, se gli antichi avean, com'io dissi, l'esemplo delle statue de' loro rinomatissimi scultori, la cui bontà più oltre sormontar non potea a quello a che ell'era giunta, esser non può che non fussero veramente bellissime le loro pitture. La ragione è gagliarda, ma nel modo con che ella vien portata, ella ammette ancora qualche replica. Gli antichi pittori vedevano le bellissime statue. I nostri pittori del 1300, a' quali parevan belle le loro pitture, e non erano; i nostri pittori pure del 1400, a' quali parean più belle le loro pitture ch'elle non erano, vedevano le vecchie bellissime statue, non già in sì gran numero quanto gli antichi, perché non erano elleno per ancora state sprigionate dalle rovine di Roma (gloria che deesi in gran parte a quei dell'augustissima casa de' Medici). Ma che più bello esemplo, anzi, lasciatemi dire, che più bella statua del naturale? Gli antichi vedevano le statue e vedevano il naturale, e i pittori del 1300 e quegli eziandio del 1400 vedevano alcune dell'antiche statue e vedevano il naturale. Dunque, perché vorremo noi affermare che le pitture degli antichi non potessero essere ancor esse difettose, tuttoché a loro paressero belle, siccome a' nostri del 1300 e poi a quegli del 1400 parean bellissime le loro, quando veramente elle tali non erano? Gli antichi veddero le loro bellissime statue e veddero il naturale, e le veddero i nostri; ma gli antichi ne' tempi de' loro pittori erano già arrivati a saper fare eccellentemente le statue, cosa che de' nostri scultori del 1300 non era addivenuta. E perché non è possibile a dire che con sì grande eccellenza della scultura potesse andar di pari goffezza nella pittura, bisogna concludere che le pitture degli antichi non paressero agli occhi loro belle e non fussero, come a' nostri del 300, ma che veramente elle fussero belle e belle molto. E se voi punto dubitate della saldezza di questo argomento, eccovene altre prove. I ritratti, che facevansi in quegli antichissimi tempi dagli scultori, oggi sì belli e sì vivi si ravvisano, che ci lasciano ancora in dubbio se dopo di loro fino lo stesso Buonarruoto abbiagli saputi agguagliare. I ritratti che facevansi dagli antichi in pittura, oggi più non si veggono; ma fino ne' medesimi tempi che facevansi i bei ritratti di scultura, erano celebrati que' de' pittori da' medesimi scultori singolarissimi, come voi bene avete letto; né io sto qui a dirvene i particolari minuti, come potrei fare, sapendo di parlare a chi tutto sa. Or che gran debolezza sarebbe di chi oggi si desse a credere che, se i ritratti in pittura fussero stati di men bellezza di quegli della scultura, ad essi fussero state date talora eguali e talora maggiori lodi e dagli scultori e dagli storici di que' tempi; anzi bisognerebbe dire che pazzi fussero stati gli uomini in que' secoli, nel mettere ch'e' fecero tanto e tanto in uso, insieme co' ritratti della scultura, quegli della pittura, non pure fra la minuta gente, ma fra' nobili eziandio e fra' sovrani, se non avessero tanto in questi quanto in quegli ottenuto il fine di loro desío, cioè d'eternare lor memoria col far rappresentare una perfetta idea de' proprii volti; e nel caso contrario sarebbe stata la pittura ne' suoi ritratti, a confronto delle maravigliose somiglianze che dava a' suoi la statuaria, lo scherzo degl'intendenti e 'l dileggio della plebe minuta, non materia d'ogni gran lode, siccome noi veggiamo che ella fu. Tornisi dunque a concludere che le pitture degli antichissimi maestri furono belle, e resta sempre vivo nostro assunto, che è ora di considerare se tale loro bellezza giungesse ad agguagliare quella che alle loro diedero i pennelli de' nostri moderni. E se alcuno soverchiamente scrupolizzando pretendesse ch'io dovessi sottoporre all'esame medesimo la già da me supposta grandissima bellezza delle pitture de' moderni, per fermare se veramente elle furono belle o fussero parute tali agli occhi loro ed oggi a' nostri; deponga pure sì fatto scrupolo, facendo reflessione che tutte le ragioni medesime che ci hanno assicurato della vera e non immaginata bontà delle antiche (che bello non saria il tornar ora a dire) vagliono per loro stesse ad assicurarne che elle furono e sono oltre ogni credere bellissime. Per quello che fa ora per lo dubbio da noi proposto, giacché trattasi di far paragoni, egli è di mestieri il fermare un principio, cioè quali e quante siano le qualitadi, che assolutamente son necessarie per far bellissima una pittura, per veder poi se queste nelle pitture antiche si ravvisassero quanto nelle moderne. La prima e principalissima e come fondamento di tutte l'altre è un ben corretto e franco disegno, che è quanto dire una prontissima obbedienza della mano, colla quale dal pittore con bella facilità ogni corpo si circoscrive a seconda di ciò che l'occhio ne scoperse o che ne concepì lo 'ntelletto. A questa quálità segue la proporzione, ch'io chiamerei la ragione del bello. Evvi poi l'espressione degli affetti in quelle cose che ammettere la possono; e sopra tutto l'ottimo colorito. Ho detto sopra tutto l'ottimo colorito, non perché altre qualitadi non s'ammirino talvolta in una eccellente pittura, come sarebbe a dire ricchezza d'invenzione, nobiltà di concetti e di pensieri, perfetto accordamento e vaghissime arie di teste. Ma queste, dico io, atte sono per loro stesse a fare un grandissimo ed universalissimo pittore; né tolgono già il rendersi maravigliosa e quasi dissi divina una pittura d'una figura sola o d'un volto solo con poco più: altrimenti vane sariano state le lodi che diede l'antichità alla sola figura della Penelope o dell'Atleta di Zeusi, e che dannosi tuttavia ne' presenti tempi alla maravigliosa, benché sola, figura del S. Giovanni Batista nel deserto, ed all'altresì sola figura del Fedria di Raffaello, o alla stupenda Venere di Tiziano' ed all'altresì sola, ma impareggiabile figura d'Andrea, ritratto al vivo di sua donna, le quali tutte con altri sì fatti tesori arricchiscono la stanza detta la Tribuna nella real Galleria del nostro Serenissimo Regnante. In quello poi che alla bellezza dell'arie delle teste appartiene, dobbiamo dire non esser questa l'ultimo fine della pittura, la quale ha per oggetto l'imitare egualmente il bello e 'l brutto, purché ella l'occhio de' riguardanti faccia restare ingannato; né io saprei dirvi se più bello apparisse pure negli antichi tempi o il quadro della Campaspe d'Apelle, o quello in cui avea egli dipinta la Calunnia; o pure se fussero maggiori gli applausi che furon dati a' cani dipinti da Nicia discepolo d'Antidoto, o a' ritratti delle vezzose femmine, l'uno e l'altro parti di suo pennello acclamatissimi da quell'età. Convien dunque che, per istar nel proprio di quello che può far bella una pittura, senz'altre aggiunte, noi ci attenghiamo solamente alle prime quattro soprannominate qualitadi; e diremo in primo luogo che nell'antiche pitture si scorse assolutarnente la grandissima obbedienza della mano dell'artefice, coll'accompagnatura d'una mirabile franchezza nella circoscrizione de' corpi a seconda del vero o di quei pensieri ch'ei voleva rappresentare; altrimenti saria mancata loro la miglior parte ed averebbero anche avute in loro stesse molta di quella bruttura che da' professori è chiamata stento o fatica scoperta, né averebbero elleno meritata o conseguita quella gran lode che fu data loro per tanti secoli, quanti ognun sa. Ma perché non intendo io per provare mia sentenza di fermarmi nelle semplici conghietture, ma bensì in dimostrazioni che appresso di me sono evidentissime, dico che fu appresso agli antichi questa mirabile franchezza; e ardisco d'affermare che, quando non mai con altro, ella ci vien significata nelle tanto celebrate linee d'Apelle e di Protogene, che per la franchezza e sottigliezza loro rapirono la maraviglia delle pupille non pure di Plinio, che come testimonic di veduta a noi ne trarnandò la ricordanza nella sua storia, ma di tutta Roma, ov'elle per gran tempo si conservarono fino a che nel primo incendio della casa di Cesare ebber lor fine fra le fiamme. Ma io sento subito presentarsi al mio supposto due obietti urgentissimi. E come sai tu, sento dirmi, che queste tanto ricantate linee fusser veramente linee o non un'altra cosa, giacché quantunque facciasene Plinio testimonio di veduta, tanti e tanti autori gravissimi non solo han mostrato di forte dubitarne, ma hanno eziandio costantemente negato che fusser tali? E quando anche elle fussero state veramente linee e non altra cosa, come possono elleno stabilire tua proposizione, che è di provare che appresso agli antichi pittori fusse eccellente la franchezza del contorno nella pittura, che è quanto a dire nel disegno? Contentatevi, virtuosissimi e discretissimi Accademici, di non ascrivermi a presunzione o superbia il procurare ch'io farò con una sola risposta di sciogliere l'uno e l'altro dubbio, mostrando eziandio quanto verace fu l'istorico intorno alle supposte linee. E questo farò io, non perché io mi stimi valevole a dar sentenza difinitiva sopra cosa disputata da' primi ingegni del mondo, ma per appagare, fino a quel segno che può un ignorante quale io sono, il desio che mostrò d'avere la sempre a me ed a voi gioconda memoria del nostro eruditissimo Carlo Dati, il quale, dopo avere nella Vita di Protogene portate, con poca propria approvazione però, le sentenze degli scrittori a Plinio contrarie, e dopo aver modestamente accennati i propri sentimenti, si ridusse a pregare gli artefici e gli eruditi a far noti loro pareri sopra sì fatta questione, acciocché potesse egli dipoi far di tutti una raccolta da pubblicarsi in altro tempo con tutta l'opera; ed averebbe conseguita fra noi questa nuova gloria se, quando meno altri il pensava, non ne fusse stato tolto e condotto a goderne una e più vera e più ferma nel Cielo. E non intendo io, che non sono né professore né letterato, che debba mio parere ad altr'uopo servire che di mostrare quanto io mi pregi di potere accordare col mio il sentimento d'un tale erudito, col chiarire giusta mia possa questo bel dubbio. Suppongasi adunque che il disegno sia veramente, quale egli fu da Federigo Zuccheri, non meno eccellente pittore che gentile oratore, chiamato padre della pittura; come quello (aggiungo io) che dà l'essere quantitaiivo ed anche in gran parte qualificativo alla medesima nella circoscrizione de' corpi con linee estreme ed interne; onde non possa mai farsi eccellente un pittore, che tal facoltà in eminente grado di possedere non procacciò, né ottimo disegno possa egli giungere a possedere, s'egli non rende coll'uso obbedientissima la mano al proprio intelletto. Ma io ardisco di più d'affermare che tale perfettissima obbedienza della mano nella formazione delle linee, non solamente sia sempre stata e sia, assolutamente parlando, necessaria al pittore, ma ch'ella sia ancora proprissima del pittore, privativamente quanto ad ogni altro di professione diversa; né temo che mi sia detto potere anche la medesima esser propria dell'architetto, del geometra o dell'eccellente scrittore d'ogni carattere, essendo notissimo che il primo, nel circoscrivere sue figure, si vale d'instrumenti diversi, come sono compasso, regolo ed altri che aiutanlo a portarsi a suo fine anche con mano stanca e tremante; ed il secondo, cioè il geometra, se vorrà tirar le sue linee esatte, lo farà coll'aiuto del regolo e del compasso o con altri instrurnenti, come l'architetto; ma a lui il tirar di queste linee con tanta esattezza non è assolutamente necessario, bastandogli il segnarle comunque gli vien fatto, purch'egli intenda esser tali, quali esser dovrebbero. Il terzo finalmente, che è lo scrittore d'ogni lettera e quasi d'ogni tratto, ha la sua forma determinata e fissa; onde quantunque tale perfetta obbedienza possa a tutti costoro molto giovare, non è perciò che possa dirsi esser propria di lor mestiere. Vediamo ora quanto convenga fare al pittore ed a quale obbedienza egli debba soggettare sua mano per farsi grande nell'arte, onde io possa dire con verità che tal franchezza e obbedienza della mano sia propria sua, e non d'altro artefice. E prima conviemmi ridire ciò ch'io mi lasciai uscire dalla penna nel mio Vocabolario toscano dell'arte del disegno alla voce Attaccature, cioè: che la natura nella formazione de' corpi umani e di molti degli animali ha unita insieme gran copia di membra e di muscoli fra di loro diversi, quegli abilitando ad una, per così dire, infinità di moti e d'azioni, dando ad essi una tal forma ed alla superficie di ciascheduno una figura tutta dolcezza, senza che alcuna sia né interamente piana, né interamente tonda, né ovata né quadra, né altra simile: ma ha voluto che quasi ogni superficie partecipi di molte figure, le quali poi in essa superficie veggonsi tanto variare, quanti sono gl'infiniti moti che fanno essi muscoli, tanto che, assolutamente parlando, non sarà mai fino alla fine del mondo alcuno così perfetto geometra, che possa ridurre a regola o descrivere né meno intellettualmente l'infinite figure che essi muscoli in tante loro movenze o vedute, compressioni, gonfiamenti, stiramenti e simili posson fare, e particolarmente quelle graziosissime figure che la stessa natura fa vedere nel passaggio ch'ella fa dall'uno all'altro muscolo, che noi abbiamo chiamate attaccature. Tutto ciò supposto per vero, siccome verissimo è, bisogna dire che conviene al pittore nel formare suo disegno il condurre sua mano a tanta obbedienza, quanta è d'uopo per portar lo stile per malagevoli sentieri e sempre vari fra di loro a seconda del vero, e nel gran formarsi e difformarsi che fanno in mille modi le medesime figure nella varia agitazione de' muscoli, operazione sì alta e di sì sublime eccellenza, che non senza gran ragione da' perfetti artefici fu sempre avuta in conto di cosa quasi dissi più divina che umana; né io fra quanti gran maestri ha avuti l'Europa dal risorgimento di quest'arte in qua, seppi mai ravvisare una tale sublimità, se non nel nostro divino Michelagnolo Buonarruoti, seguitato a gran passi dal gran Raffaello e dal nostro correttissimo Andrea del Sarto; ed in ogni altro scuopresi talora alquanto di quel difetto che dicesi maniera o ammanierato, che è quanto dire debolezza d'intelligenza e più della mano nell'obbedire al vero. Or vada chi che sia a dire che questa mirabil franchezza della mano, che quest'abito mirabile nato dagli atti infiniti d'obbedienza, ch'ella, per portarsi a tanto, prestò all'intelletto dell'artefice, non sia assolutamente proprio del pittore: ed eccoci al punto. Or se questa tal franchezza e sicurezza della mano d'altro professore non è propria che di quello della pittura, non potea Apelle, quell'altissimo intelletto, con più breve e con più significante contrassegno o distintivo qualificare se stesso per Apelle unico in quell'arte, che col tratto della sua maravigliosa linea. E Protogene, dopo averlo col solo testimonio di questa ben conosciuto per quello ch'egli era (il che pure assai stringe mio argomento), non potea porsi con esso in contesa di maggioranza nell'arte medesima, se non col tirare un'altra linea sopra quella di lui, la quale poi, in segno di sua maggior franchezza e obbedienza di mano, colla sua terza linea tirata sopra quella di Protogene volle vincere il grande Apelle. E osservate meco che non seppe ne' secoli a poi più vicini il nostro Giotto senz'alcun'opera far vedere di sua mano in pittura, benché richiestone da persona d'alto affare, farsi conoscere da lungi per lo più sublime fra' pittori del suo tempo, che colla piccola dimostranza d'un cerchio, tirato in sola forza d'obbedienza e franchezza della mano, con che non solo esso si sottoscrisse al nostro parere, ma lo stesso gran personaggio, che fu Bonifazio VIII e non papa Benedetto IX, come erroneamente scrisse il Vasari, col rinfacciare ch'e' fece al mandato sua goffezza in non aver saputo intendere il sentimento di Giotto anch'egli al nostro parere si sottoscrisse. Con questo adunque a mio credere rispondesi a due obietti statimi presentati poc'anzi, e si ferma che verissimo e non falso fu il detto di Plinio circa alle linee; e per testimonianza delle medesime linee, resta altresì fermato per vero che appresso agli antichissimi pittori fu eccellente la franchezza e l'obbedienza della mano ne' contorni delle loro pitture. La seconda qualità che debbe avere una pittura, acciocché bellissima sia, è la proporzione; e qui, per non mi allungare' io torno a valermi di tutto ciò ch'io dissi a principio, cioè che se le pitture furon lodate dagli scultori, la cui proporzione nelle statue loro fu sopra ad ogni eccellenza, come dimostrano oggi esse medesime; e se i ritratti in pittura posti allora in uso indifferentemente con quei bellissimi della scultura eran somiglianti; e se grandissima fu l'obbedienza della mano degli artefici nella circoscrizione de' corpi, vien subito provato che dalle pitture di quegli ottimi maestri era assai lungi la sproporzione, la quale io soglio dire esser l'unica differenza che è fra le figure e i fantocci. Ma se pure ci piacesse l'averne qualche esemplo, che anche più empiesse nostro intelletto, io son per portarvelo. Ma prima io dico che fra gli antichi pittori, quanto mai d'ogni altra cosa, fu andato in traccia delle proporzioni, talmente che (come bene vi si ricorda) Panfilo, pittore di quei tempi, letterato e dotto in aritmetica e geometria, soleva dire che senza tali scienze non poteva alcuno farsi eccellente pittore; ed io leggo che Eufranore pittore scrisse della simetria. Sapete ancora che in quei gran maestroni di prima riga (tanto era il gusto che si aveva in essa simetria) fu notata ogni minima mancanza in ciò che a proporzione apparteneva; e che Zeusi, volendo dípignere per li Crotoniati (Crotoniati, da Crotone, terra di Calabria.) la figura d'Elena, in modo ch'ella rappresentar potesse la più perfetta idea della beltà femminile, come si ha da Plinio portato anche dal Dati, scelse da' corpi delle cinque vergini quanto elle avevano di perfetto e di vago, per formarne (soggiunge lo stesso Dati) colla rnano quella bellezza ch'egli s'andava immaginando col pensiero, superiore ad ogni eccezione e libera da qualsivoglia difetto. Parole in vero piene di bella significanza; ma queste debbono intendersi, non come sentesi talvolta dire anche in pubblico da qualche semplice e non punto intelligente di quest'arte, cioè che Zeusi, vedendo una perfetta parte in alcuna delle fanciulle, quella copiasse nel suo quadro come vedevala nell'originale, ed appresso a questa un'altra d'altra fanciulla, ch'egli avesse pure veduta perfetta, e vadasi così discorrendo; sapendosi molto bene che un bell'occhio in tanto fa mostra di sua bellezza, in quanto egli è adattato al proprio viso, e che una bella bocca accomodata sopra volto non suo perde il pregio di sua bellezza, la quale in sustanza da null'altro ridonda che da un complesso di parti proporzionate al loro tutto e da un tutto proporzionato alle sue parti; e così non potea Zeusi valersi del bel ciglio, per cagione d'esemplo, di Polissena, delle narici e del mento di Cassandra (Polissena e Cassandra, fanciulle figliuole di Priamo re di Troia nel tempo della guerra de' Troiani per il rapimento d'Elena. Virgilio nell'Eneide; non si pigliano questi due nomi per altro, che per valersi de' nomi di vergini antiche senz'obbligarsi a ordine di tempo.), per adattarle alla sua pittura: e ciò particolarmente per la ragione ch'io portava poc'anzi nel parlare dell'attaccature, toccante gli stupendi passaggi che in superficie fanno i muscoli nell'unirsi fra di loro, i quali non ammettono né ammetter possono sì fatte rappezzature; onde convien dire che Zeusi, dopo aver presa da' corpi di tutte e cinque le vergini crotoniati la più bella proporzione universale, scorgendo l'inclinazione che aveva alcuna parte a quel bello ch'egli andava immaginando col pensiero, col caricarla e scaricarla riducessela con somma proporzione a quel tutto di bellezza ch'egli andavasi col pensiero immaginando; altrimenti (e notate questa frall'altre leggerezze che averete scorte in questo mio discorso) altrimenti dico non averebbe Zeusi con questa sua pittura, che potrebbe dirsi fatta a musaico, effigiato il volto d'un' Elena, ma della Befana; anzi io penso che non sariagli mai potuto riuscire, in tal caso, il fare alla sua figura un sì brutto viso, quando non fra i volti delle fanciulle crotoniati, ma fra i ceffi di quei della casa de' Baronci, di cui parlò il nostro graziosissimo novellatore, egli avesse voluto raccapezzarne le fattezze. Ma come si adattano al proporzionare che fece Zeusi maravigliosamente le parti di quei corpi, per farne un tutto bellissimo, quelle parole che m'uscirono di bocca poc'anzi, cioè caricando e scaricando? le quali per mio avviso volle intendere tacitamente il Dati, là dove disse: ne formò colla mano quella bellezza, la quale egli s'andava immaginando col pensiero superiore ad ogni eccezione. Com'elle s'adattino, ecco ch'io il dico. Caricare o scaricare, o disegnare di colpi caricati, dicesi ad un'invenzione bizzarrissima, che vogliono quei della città di Bologna ch'ella fosse trovata dal ceIebre Annibale Carracci, se bene io so ch'ella fu alcuna volta praticata in Firenze fino cento anni avanti al Carracci, cioè a dire circa del 1480, e poi ne' tempi nostri maravigliosamente messa in uso dal nostro Baccio del Bianco e da altri: ed è un modo di far ritratti quanto si può somiglianti al tutto della persona ritratta, ma però (o sia per giuoco o per ischerno) talora aggravando o crescendo i difetti delle parti imitate sproporzionatamente, talmente che nel tutto appariscano esse e nelle parti siano alquanto variate; sopra di che è necessario far reflessione che ogni uomo, come ognun sa, ha da natura effigie propria, che in tutto e per tutto lo distingue da ogni altro, e che ciascheduno ha nel volto le stesse membra in numero, nome e qualità, ma le ha altresì in qualche parte diverse da quelle d'ogni altro; in oltre è da sapere che, siasi pure una faccia bella quanto ella si voglia e ben proporzionata al possibile, gran fatto sarà ch'ella in alcuna parte (stella non è difettosa) almeno non inclini a qualche difetto o di scarso o di troppo; e dato che ella anche sia in ogni sua parte senza difetto, ella avrà sempre in sé alcuna cosa che farà l'effetto contrario a quel che farebbe la deformità o sproporzione delle medesime parti, cioè: dove quella sarà espressa cagione di rozzezza d'aspetto, questa il sarà di gentilezza; dove quella di malinconia, questa d'ilarità, e altre a queste simiglianti cose. Entra qui ora lo spiritoso pittore, al cui perspicace intelletto obbedisce perfettamente la mano, e in primo luogo conosce non solo quali siano i difetti di quel volto e la sgraziataggine d'ogni parte, ma anche ne' più bei volti, a qual difetto pare che inclini qualche parte di esso volto per renderlo tanto o quanto deforme e ridicoloso; e quel che è più, considera e conosce ancora ne' bellissimi volti, quali son quelle parti che in essi son propria cagione di grazia o bellezza; e coll'aggravarvi sopra la mano nel suo disegno, senza discostarsi in universale dall'imitazione di quel ch'e' vede, ma seguitando sempre l'intenzione della natura e dando per così dire adempimento e perfezione all'intento di essa, fa sì che il brutto diventi più brutto, e 'l bello e grazioso, con troppo carico di grazia, anch'egli diventi brutto e sgraziato, ma però sempre tanto simile al vero, che nel tutto apparisca l'effigie della persona ritratta e per conseguenza non sieno anche interamente dissimili le parti. Or quello che dicesi del caricare o scaricare per ridurre a bruttezza il bello o 'l non brutto, intendiamo ancora del caricare o scaricare per ridurre a quella maggior bellezza che 'I pittore si va immaginando col pensiero, superiore ad ogni eccezione, il non tanto bello, dando sua intera proporzione ad ogni parte, ed è questo, torno a dire, secondo me, il vero sentimento dlelle parole del Dati, e quello appunto che fece in ogni sua opera il gran Michelagnolo, il quale dagl'infiniti corpi da lui studiati ed anatomizzati andò investigando tutta l'intenzione ch'ebbe la natura nel fare il più bello e colla sua obbediente mano megliorò la stessa natura in quelle parti ov'ella non giunse al più perfetto, mentre fa conoscere antica esperienza che fra gl'infiniti corpi, ch'ella ogni dì va producendo, uno a pena si troverà talora che un qualche mancamento non iscuopra; ed è questo in somma quello che fece Zeusi nello studiare le parti più belle delle vergini crotoniati. Per il detto fin qui intenderete voi il perché abbia io fatta distinzione fra disegno e proporzione, potendo per altro parere ad alcuno che l'ottimo disegnare supponga per necessità l'ottima proporzione; e non è così, perché può lbene un artefice con gran franchezza e obbedienza della mano ben circoscrivere ogni corpo che presentasi all'occhio suo, che è quanto dire ottimamente disegnare, ma s'egli non averà, come il Buonarruoto dir soleva, le seste negli occhi, o vogliamo dire s'egli non possederà l'ottimo gusto delle proporzioni per saper supplire a quanto mancò nel naturale, egli non condurrà mai l'opera sua a segno che interamente bella possa dirsi; che è quello a che, per le ragioni sopra accennate, io tengo per certo che anche giungessero le pitture degli antichissimi maestri, e questo, quando non mai per altro, come sopra accennai, a cagione delle mirabili proporzioni che in loro stesse scoprivano l'opere de' loro statuari. Alle due qualitadi, di cui abbiamo fin ora parlato, segue quella che i pittori chiamano espressione degli affetti, parte principalissima d'un eccellente pittura, e quella che dà l'ultimo compimento alla somiglianza del vero. Or dica ognuno quant'ei vuole e come ei vuole, che gli affetti che può esprimere una pittura per farsi credere cosa vera e non finta, ond'ella possa gli affetti altresì de' riguardanti commuovere, siano solamente l'amore, lo sdegno, l'umile sentimento, l'alterigia, l'allegrezza, il dolore, ed altri a questi somiglianti; ch'io per me darò sempre, se non il primo e principale, almeno un molto eminente luogo a quella pittura che, non avendo in sé dimostranza d'affetto alcuno particolare, una ne ha, che per tutte l'altre si conta, e questa si è un ritratto al vivo di persona che guardi chi'l mira o pure atro oggetto; ma avvertite che io intendo di parlare solamente di quella sorta di ritratti che veddersi alcuna volta, o del gran Raffaello o de' nostri Andrea e Lionardo o di più d'uno de' migliori pittori veneti e lombardi, o del celebre Hans Holben di Basilea, detto poi il Raffaello dell'Inghilterra, di cui vedesene, nell'altra volta nominata stanza detta la Tribuna, uno maraviglioso; ne' quali singolarissimi ritratti l'artefice a forza d'un disegno senza pari, d'un gran rilievo e d'un ottimo colorito, in un par d' occhi solamente fece apparire non uno o due affetti, ma tutta l'anima insieme; e se voi mi domandaste a quale delle tante figure che espresse Andrea nella tanto rinomata storia de' Magi dipinta a fresco per entro il cortile della Santissima Nonziata, io darei il primo luogo di bellezza, o alle tanto vaghe de' Magi stessi o di quegli di lor corte, tutte maravigliosamente espresse, o pure al ritratto del Sansovino insigne scultore, o a quello altresì che Andrea vi dipinse al vivo dal proprio suo volto, il primo de' quali in atto di guardare stassene ritto in su due piedi e, come noi sogliamo dire, colle mani in mano, e 'l secondo ritto pure e fermo e senz'alcun moto di persona, ma solamente in atto di guardare e d'accennare; io vi risponderei francamente, ch'io il darei a questi due, perché finalmente verissima cosa è che gli affetti più sensibili, che son quei ch'io v'accennai poc'anzi, bene spesso con grandissima facilità esprime il pittore nel valersi ch'e' fa d'attitudini più o meno forzate ne' moti o delle rughe ne' volti, o d'altra mutazione di parti a questa somigliante, che le parti de' corpi e de' medesimi volti faccia sensibilmente variare; là dove ne' semplici ritratti tal cosa non addiviene. Dunque, se noi per le ragioni dette di sopra abbiamo dimostrato che bellissimi fossero i ritratti in pittura degli antichi, pare che resti per ora tanto quanto stabilita la massima che anche questa bella qualità dell'espressione degli affetti possedessero l'antiche pitture. Che poi sia vero che facilissima cosa sia talvolta al pittore il far esprimere affetti ad ogni sua figura che non sia un ritratto, raccoglietelo in parte da ciò ch'io ora sono per dirvi. Dipingeva il chiarissimo pittore Pietro da Cortona la stanza del real palazzo a' Pitti, detta la Stufa, e stava rappresentando in una storia delle facciate l'Età del Ferro, mentre la sempre gloriosa memoria del gran Ferdinando II per suo diporto stavalo osservando nel dipignere ch'ei faceva il volto d'un fanciullo che dirottamente piangeva; e' disse al pittore:"Oh come piange bene codesto fanciullo!" A cui il valente artefice: "Vuole l'Altezza Vostra vedere quanto facilmente piangono e ridono i fanciulli? ecco ch'io a Vostra Altezza lo dimostro". E preso il pennello, fece vedere a quel sovrano che col fare che il contorno della bocca girasse concavamente all'ingiù, laddove nel piangere esso contorno convessamente girava all'insù, lasciando l'altre parti a' lor luoghi, con poco o niun ritocco il putto non più piangeva, ma smoderatamente rideva; e col riportare ch'e' fece poi il pittore la linea della bocca al suo primiero posto, il fanciullo tornò a piangere. Ma perché a fine di dar per ferma nostra proposizione, cioè che nell'antiche pitture fosse grande l'espressione degli affetti, non ci basta il detto fin qui, conciossiaché, quantunque noi abbiamo mostrato nell'altra lezione che i ritratti di quel tempo avessero lode nel cospetto de' bellissimi della scultura, e con tutto che si sappia dagli antichissimi storici, che fussero tali che da' fisonomisti e da' metoposcopi fussero da' medesimi ritratti indovinate le fortune (pregio attribuito a' ritratti d'Apelle), noi per questo non possiamo accertare ch'eglino esprimessero talmente l'interno affetto, ch'e' potessero agguagliare i pochi de' gran maestri moderni: però veggiamo se alcun'altra cosa possiamo cavare di più chiaro dall'antiche memorie. Vi sovverrà di Timante, il quale nel dipignere ch'e' fece la gran tavola del Sacrifizio d'Ifigenia figliuola d'Agamennone, che prostrata avanti all'altare aspettava per mano del sacerdote il colpo di morte, presente Menelao l'afflitto zio e i tanti che a tal atto assister dovevano; avendo consumata ogni industria dell'arte in fare apparire la mestizia e 'l dolore in tanti volti, né avendo più che mostrare in quello dell'afflitto padre, si ridusse a coprirgli il viso col lembo di suo mantello; onde a gran ragione gloria grande si procacciò la tavola di Timante in ciò che ad espressione appartiene. Ricordatevi di quanto fu lodato altresì quello Aristide Tebano, il quale in una sua tavola dipinse quella femmina che fra gli ultimi assalti di morte dava a conoscere suo timore che il suo piccolo figlluolino, che carpone andavasegli accostando alla mammella per succhiarne il latte, non bevesse insieme con esso il sangue delle sue grondanti ferite; né vi si scordi la maravigliosa figura del Demo (Demos, voce greca che signifiea popolo, onde democrazia, che vale governo di popolo, repubblica che si regge a popolo, com'era quella d'Atene. Fra l'altre medaglie, in una di Diocleziano nel rovescio si vede un giovane nudo col motto attorno Genio Populi Romani, quasi dedicata fusse quella medaglia allo spirito che inspirava il popolo romano.), ovvero genio del popolo d'Atene, dipinta da Parrasio, che pretese in quella sola mostrare tutte le naturali inclinazioni del popolo ateniese, e che in essa a caratteri molto aperti si leggesse il vario, il clemente, l'iracondo, l'umile, il superbo, il timido, il feroce, ed altri a questi simiglianti affetti; e che ciò riuscissegli con felicità eguale al grande impegno suo, attestanlo l'antiche carte. Sicche io non saprei come non concedere per vero che anche la bella qualità dell'espressione degli affetti fosse a gran misura nelle pitture di quei tempi. E che diremo dell'ultima qualità che debbe avere l'ottima pittura, cioè a dire del colorito, ultimo termine di sua bellezza? Oh questo è il punto, oh questo è il punto! Confessovi, o miei signori, che per molto ch'io abbia faticato per trovare qual fusse il colorito di quei pittori, per potervi dare certa ragione di sua perfezione, io non ho mai saputo ritrovarne il proprio. Mi dice Properzio (Lib. I, Eleg. 2, 19-22.), là dove e' prese a lodare la bellezza, che Ipodamia era per beltà famosa e ch'ella fece innamorare Pelope, che poi fu suo consorte, per la candidezza vera del suo schietto volto, e poi soggiunge: giusto com'è il colore nelle tavole d'Apelle. E piacciavi conservar memoria di questa candidezza del colorito d'Apelle, perché ce ne serviremo a suo tempo e luogo. Trovo che Aristide Tebano fu rozzo nel colorire, e che Nicia bene maneggiò il chiaro e lo scuro, e che alcuni de' pittori di quei tempi attesero a' monocromati o chiari scuri, che noi chiamiamo pitture d'un solo colore, e che circa il principio del passato secolo nel cavarsi in Roma da S. Pietro in Vincola fra le rovine del Palazzo di Tito per trovare statue, furono scoperti, dell'antica pittura a tempera ed a fresco, per entro alcune stanze soterranee alcuni rosumi avanzati alle crude sanne del tempo; e furono molte piccole storiette e figure con vari capricci, che per loro bizzarra invenzione e novità seppero talmente innamorare il gran Raffaello, che volle che Giovanni da Udine suo discepolo s'applicasse di gran proposito a studiarle; e ne fu subito piena tutta Roma; e furon quelle, che da' luoghi onde furono ricavate, già ridotti come grotte, furon dette grottesche. Altre se ne veddero con bellissimi bassi rilievi di stucchi a Tivoli nell'Adriana Villa, a Pozzuolo nel Regno, al Trullo, presso al mare, a Baia; ma io so ancora che quantunque elle avessero in sé bizzarria d'invenzione, ben corretto disegno, con ragionevole colorito, elle però non giungevano in bontà a gran segno a quelle che i discepoli di Raffaello ed altri molti in su quel modo usarono di fare; testimonio il fatto stesso ed il Vasari medesimo ne' suoi scritti, onde fecersi conoscere nel colorito assai inferiori alla fama che generalmente correva delle pitture antiche, ciò che per testimonianza degl'intendenti dell'arte debbe dirsi di quelle che veggonsi per entro il sepolcro di Caio Cestio, scopertesi ne' tempi d'Alessandro VII, e delle ritrovate eziandio l'anno 1680 presso a Ponte Molle nel sepolcro de' Nasoni. Ma perché né le notizie che ricavansi dagli scrittori, né le poche pitture che dette abbiamo, bastano a me per iscoprire tanto quanto abbisogna a fine di venire in chiaro di qual fusse veramente il colorito degli antichi, m'è duopo adesso, per ottener mio intento, ad ogni altra cosa ricorrere fuori che a sì fatte testimonianze. Dirò dunque che è la pittura un'arte' come vi è noto, la cui pratica consiste nell'aggiugner materia a materia, e non nel levare, come la scultura, ed è simile in questo all'architettura; ma siccome alla scultura è necessaria proporzionata materia per lo suo levare, all'architettura altresì per l'ammassare ch'ella fa di corpi con corpi; così vuole la pittura la sua materia per lo suo aggiungere, e questa oltre ogni credere disposta per lo suo fine sustanziale, che è una sì perfetta imitazione del vero, che vaglia, se possibile è, ad ingannare i più perfetti sensi degli uomini, facendo lor credere ciò che è finto per vero; ed in questa tale materia ell'è tanto più necessitosa che le due sue care sorelle non sono, quanto che all'architettura, che altro non ha per fine che il comodo e la vaghezza, standosene fra le leggi d'una bella simetria con poco o quasi punto obbligarsi ad imitazione, nulla rilieva che siano le materie di suo lavorio o i calcedoni orientali o i lapislazzoli della Persia o i marmi parii o i diaspri di Cipri o i mischi o i macigni de' nostri monti. E ciò che dicesi di questa, intendasi anche della scultura; la quale per ottener suo fine sostanziale, che è di far una bella statua, com'ell'ha date le sue simig]ianze in qualiià e quantità alla sua figura, si contenta ch'ella sia creduta spiritosa sì, simile al vero sì, ma di sasso; là dove la pittura, dopo aver nella sua impiegate tutte l'industrie di che si valsero la scultura e l'architettura, vuole e pretende e ch'ella sia vera e ch'ella sia viva; ch'ella fiso ci guardi e ch'ella, se possibile è, con noi ragioni comunicandoci i suoi affetti, ed in somma che in ogni cosa in tutto e per tutto ella c'inganni. Da tutto questo nasce subito una indubitata conseguenza: che poterono bensì le pitture degli antichi aver tutte le parti e qualitadi che dette abbiamo; ma quella del colorito in tanto poterono averla in quanto essi ebbero le materie a ciò proporzionate. E se voi mi risponderete che gli antichi ebbero quasi tutti i nostri colori, pare a primo aspetto che debbasi dare per isciolto il problema e che debba dirsi che le loro pitture giunsero né più né meno alla perfezione di quelle de' nostri moderni. Ma sappiate, virtuosissimi Accademici, che per questo, a mio credere, noi non siamo ancora a nulla. Contentatevi ch'io vi conceda che gli antichi avessero i colori floridi e gli austeri, i naturali e quasi tutti gli artificiali, ch'egli avessero i passaggi dall'uno ad un altro coIore, che essi come noi chiamavano, o pur noi come essi chiarniamo accordamento (Questa voce accordamento estendesi ne' nostri tempi a significare altre qualitadi della pittura, intorno a che vedasi il nostro Vocabolario dell'arte del disegno alla voce accordato o accordamento.); ch'e' dipingessero a fresco sopra muro e anche sopra tavole, e che nell'a fresco egli escludessero alcuni colori, siccome i nostri fanno, come non atti a tal lavoro; ch'ei cercassero d'esprimere i lumi e l'ombre e quello ch'essi chiamavano splendore, che noi diciamo il maggior chiaro; e che chi più e chi meno s'ingegnasse d; dar rilievo all'opere sue. Volete più? Ma questo a me non basta per concedere che le pitture antiche in bontà e perfezione le nostre moderne agguagliassero, quantunque già mi risolva a concedere, e dia per concesso, che egualissirni in valore fossero a' nostri gli antichissimi pittori. Volete finalmente ch'io vi cavi d'impaccio? voletene la ragione? La ragione è questa: perché io, per le cause che in fine sono per addurvi, tengo per fermo che appresso agli antichi non fosse la maravigliosa invenzione del colorire a olio, senza la quale non potea lor pittura accostarsi di gran lunga tanto al vero, quanto fa quella che a olio è dipinta; e la ragione universale di ciò si è perché colla tempera e coll'a fresco, che si fa con colore liquefatto con acqua, non può darsi il rilievo e la forza che si dà coll'a olio; perché gli scuri e i chiari, da cui l'ombre e i lumi risultano nell'a fresco e nell'a tempera, son diversissimi da quegli de' colori liquefatti con olio: l'acqua fa i chiari molto chiari e gli scuri poco scuri; l'olio mortifica i chiari e rendegli meno dilavati e gli fa sì morbidi che per questa sola morbidezza molto si conformano colla vera carne. Ma quel ch'è più, l'olio comunica sì gran profondità agli scuri, che, come bene scrisse il Vasari, giunge con esso l'artefice a dar tanto rilievo all'opera sua, che le figure escan fuori della tavola, cosa che non fa né può fare la tempera e l'a fresco. Vogliamo anche la ragione della ragione, o per meglio dire vogliamo una dimostrazione fisica di quanto io dico? Si prenda una porzioncella di colore qualsisia naturale o artificiale, si bagni o si stemperi con acqua, e lo stesso facciasi ad altra porzione con olio; e vedremo subito che tanto l'uno che l'altro fannosi di assai più profondo colore di quel ch'egli erano, senza però alcuna differenza fra di loro; ma che? fate che si parta dal primo, dico dallo stemprato coll'acqua, l'umidità dell'acqua, dico ch'ella s'asciughi, e subito voi vedrete che il colore, che s'era fatto molto profondo, ritorna alla sua antica chiarezza. Dell'a olio non è così, perché la materia con che egli è stemprato, fattasi una cosa stesso con esso, non s'asciuga, ma si secca, e quale il ridusse, ta]e il ferma, e così non mai rimette o scema né pure per ombra quella profondità di colore che essa materia gli cagionò da principio. Questa ragione, presa immediatamente dalla natura, può bastare per assicurarne che, non avendo avuto gli antichi pittori il modo di temperare le loro tinte con materia untuosa, non poterono le lor pitture avvicinarsi tanto al vero' quanto quelle fecero de' nostri moderni e conseguenternente che le lor pitture non giungessero a tanta perfezione, quanto fecero quelle di costoro. Bramiamone poi qualche ragione accidentale? eccone alcune. Ha il colore temperato con acqua questa infelicità, che dovendo nella pittura far mostra di sua bellezza e somiglianza del vero quando egli è asciutto, e non quando egli è dato, nell'asciugarsi ch'e' fa con una certa sfacciataggine e crudezza, tanto si discosta dall'intenzione che ebbe l'artefice nel formarne la sua pittura, che sempre a questo è necessario, per appressarlo alquanto più al naturale, il ritoccare suo lavoro asciutto ch'e'sia; ma non per questo giunge egli mai co' suoi ritocchi a dare alla pittura quella forza e quel rilievo che 'n sulla bella prima dà alla sua chi colorisce a olio; onde vi sono stati pittori di primo grido, e sonvene tuttavia, che le loro pitture a fresco, con una certa loro invenzione, hanno voluto ritoccare cogli stessi colori a olio. V'è questo di più: che anche manca in gran parte alla pittura a fresco e a tempera quell'aiuto che le suol dare l'artefice nell'unire colore con colore per una vera digradazione del medesimo, la quale nell'a olio riducesi a segno ch'e' non par di vedere una pittura, ma la figura stessa del naturale per entro un tersissimo specchio; che però non solo i nostri pittori del 1300, ma eziandio gli antichi, per unire i lor colori a fresco e a tempera nel miglior modo possibile, valevansi della per altro impropria operazione del pennello, cioè di unirle a forza di tratti e di punti, come farebbesi con penna o stile, o come i miniatori fanno. De' nostri del 1300 havvene l'attestato di lor pitture e del Vasari. De' pittori antichi non manca il testimonio d'una pittura, che mostrasi per entro una loggia alla Vigna Aldobrandina sul Quirinale, che chiamano volgarmente la Nova nupta in thalamo, ritrovata nel Monte Esquilino nel tempo di Clemente VIII, opera che io, col parere di chi meglio di me intende, stimo del buon secolo da Nerone a Antonino, che quantunque ella non iscuopra un ottimo gusto di colorito, ell'è però la migliore che fino a' nostri tempi siasi scoperta. Or questa vedesi in più luoghi unita a forza di tratti; e se bene non è mancato chi creda esser questi anzi fattura del tempo che del pennello, io però colla più parte gli stimo tratti, sì perché tali appariscono, sì anche perch'io so che 'l pittore non tratteggia né punteggia i suoi freschi per ostentazione, ma per necessità. Si osservi l'Eliodoro di Raffaello in Vaticano, e si vedrà ch'egli ha due fondi uniti con tratti, e sebbene si considerano le pitture di Pulidoro e parte di quella della cupola del Coreggio, vedrassi il medesimo, oltre ad altre d'altri artefici di primo grido. Ma che diremo noi del velare? questo al certo non può farsi nell'a fresco e nell'a tempera; e pure ell'è quella industriosa manifattura, che particolarmente ne' panni fa vedere maraviglie di somiglianza, e quella di cui servissi fino negl'istessi paesi il Rosa, colla quale fece vedere un certo abbacinamento d'aria ne' lontani, che veramente inganna. Tale e tanto in somma è il contrasto che patisce il pittore a fresco dalla materia stessa, per avvicinarsi un tal poco al vero, che, considerato dal gran Michelagnolo Buonarruoti, gli fece più volte dire che, rispetto al colorire a fresco, era il colorire a olio un'arte da poltroni. Supposto anche per vero, siccome verissimo è, il detto fin qui intorno alle molto sensibili differenze che passano fra i due modi di colorire; insorgono tuttavia due dubbi in fatto. Il primo (e del quale io mi rido) è tolto dall'antichità, e potrà esser detto così: che l'uve di Zeusi, fatte secondo mia sentenza a tempera e non a olio, furono con tutto ciò sì ben colorite, ch'elle giunsero ad ingannare gli uccelli (se pur fu vero) e, lasciatemi dire, s'e' non fu detto per uccellare la posterità. A questo io subito rispondo con iar sentire le doglianze dello stesso pittore, per non avere egli saputo colorire il fanciullo per modo che quei timidissimi animali, nel gettarsi all'uve, avessero avuta paura di lui; e dico che se l'uva di Zeusi ingannò gli uccelli, ella non ingannò gli uomini, e se fusse seguitato a dire che il tanto celebrato velo di Parrasio ebbe forza d'ingannare gli occhi eruditi di Zeusi, io tornerei a rispondere che quell2s impareggiabile eccellenza nella pittura, di che io intendo di ragionare, è intorno a quel soggetto che rendesi in essa e più difficile e più maraviglioso e che è unico oggetto di nostra ammirazione, che sono l'umane forme e non altre naturali cose, alle quali con pochissimi colori bene spesso ogni ordinario artefice giunge a dar somiglianza col vero. Nasce il secondo dubbio in fatto dall'opere de' moderni, mentre noi ci riduchiamo a rnemoria la tanto rinomata Galleria Farnese de' Carracci, la Sala Barberina e la bellissima Stanza di Marte nel Palazzo Serenissimo, opere de' pennelli del Cortona, e tante e tante pitture dell'Albano e di più altri insigni pittori del passato e del presente secolo, le quali, con essere state fatte a fresco, scuoprono contuttociò in loro stesse gran profondità di scuri, chiari bene accordati, buon rilievo e vago colorito. Ma voi non mi negherete che queste pitture, da qualsifosse pittore state fatte a fresco, per lo solo loro colore paiono e si riconoscono da ognuno per fatte a fresco; e le pitture de' medesimi fatte a olio paiono e si riconoscono da ognuno per fatte a olio, tanto che qualche diversità bisogna pure che sia fra quelle e queste. E se il vero, che è quello a che tanto l'uno che l'altro modo di colorire cerca d'assomigliarsi, è un solo, perché tanta disparità d'apparenza nelle copie? Io già so che voi avete prudentemente avvertito che il lustro, che talora ha lor pittura a olio, nulla opera in ordine al potersi dare per cagione di tal differenza; perché io astraggo affatto da tal piccolo accidente e solo intendo di ragionare della pittura a olio, vista con quella opposizione di luce, ov'ella non lo patisce. Or, dico io, se tanta differenza si scorge fra l'uno e l'altro modo di colorire, che con gran chiarezza ed alia prima occhiata l'uno dall'altro si distingue; bisogna pur dire che non tutti e due giungano egualmente all'intera somiglianza col vero, il quale è uno, perché voi ben m'insegnate che non possono due cose fra di loro diverse ben conformarsi con una terza cosa. E perciò è necessario confessare che da una delle parti stia il mancamento, il quale assai chiaro potrebbe apparire dal paragone che si facesse d'alcuna bellissima pittura a olio de' poc'anzi nominati maestri con altra pure bellissima fatta dal medesimo a fresco; e vedrebbesi che le belle qualitadi di profondità di scuri, di chiari bene accordati, di buon rilievo e di buon colorito, nell'a fresco apparirebbero di gran lunga migliori di quelle di molti altri maestri di minor pratica, ma non già punto migliori di quella, a che tal modo di colorire giunger puote; che in somma è un posto assai più basso di quello a che arriva il modo di colorire a olio. Ma perché il far misura della differenza che sia fra i due posti, è solamente parte dell'occhio erudito de' professori e di quegli d'ottimo gusto in ogni buona arte, quali voi sete, io senz'altro dire. a quello mi rimetto. Provate e vedrete. Resta in ultimo che si portino da me le ragioni che mi muovono a credere per indubitato, che gli antichi non avessero il bell'uso di dipignere a olio. Dico dunque che tale mia asserzione dovrebbemisi approvare per questa sola ragione, cioè perché noi sappiamo essere egli stato trovato in Fiandra in questi ultimi nostri secoli e che per più altri secoli avanti a questo suo ritrovamento egli non era, siccome mostrano chiaramente le pitture rimase in sulle tavole dell'ultima greca maniera; perché io non so vedere qual necessità vi sia di credere che tutto quello che s'è trovato in questi ultimi tempi, fosse anche negli antichissimi. Mi si dovrebbe anche concedere per questa saldissima ragione di non potere un tal fatto presumersi, ma di dover essere concludentemente provato da chi vero il pretende. Ma io non intendo di fermarmi né in questa né in quella; dico bene che al mio intelletto, per la lunga lettura ch'io feci del molto che fu scritto in sì fatte materie, è così chiaro che gli antichi non avessero il colorito a olio, che a gran pena potrei rappresentarvelo con lungo discorso, e questo per lo modo con che fu scritto, dal quale resulta una chiarezza che a me rendesi maggiore d'ogni ragione, che tal uso non ebbero gli antichi; osservandosi fra l'altre cose che gli storici ne' loro scritti, in ciò che a' lor pittori ed all'opere loro apparteneva, discesero a sì minuti particolari' che al tutto impossibile si rende il credere che di cosa di tanto rilievo, e che fra pittura e pittura, e che fra modo e modo porta sì grandi differenze, essi né meno avessero pronunziata parola. Trovansi bene notizie dí pittori antichi, che fanno credere che tal uso non vi fosse; fra le quali potrà sempre appresso di me ciò che fu scritto d'Apelle, cioè ch'egli fu ritrovatore d'un certo color bruno o vernice che si fosse, la quale niuno seppe imitare, e davala all'opere dopo averle finite; e che servivasene con tanto giudizio, che i colori accesi la vista non offendevano, facendosi vedere da lungi come per un vetro (e notate questa particolarità), e che le tinte lascive mediante quella acquistavano un certo che d'austero o di scuro, che è tutto quello appunto che facevano i nostri pittori del 1300 avanti al ritrovamento della tempera coll'olio, cioè che davano sopra le tavole una vernice, che era una certa mestura che alla loro dilavata pittura un certo che di più profondo e di forza maggiore aggiungeva' ed il soverchio chiaro alquanto smorzando riduceva a maggior somiglianza del naturale. E qui riduciamoci a memoria il luogo di Properzio da me poc'anzi allegato, intorno a quella candidezza che avevano le pitture d'Apelle, le quali non poteano non averla, essendo fatte senza l'aiuto dell'olio, benché fossero tutte sopra tavole, non sapendosi che Apelle giammai dipignesse sopra mura; che però conveniva a quell'artefice con tale sua vernice aggiunger loro quel rilievo e verità maggiore che esse in loro aver non poteano. E se gli è vero che quella vernice d'Apelle non fosse mai stata imitata da nessuno, bisogna dire che esso solamente desse alle sue pitture un tal poco di maggior rilievo, e che quelle di tutti gli altri restassero interamente nella loro dilavata apparenza. Se poi sarà detto che i moderni pittori usano anch'essi talvolta vernice sopra le lor pitture a olio, io rispondo che tale usanza (ch'è di pochi) non è per supplire al mancamento della pittura a olio, cioè per render più profondi gli scuri e i chiari più mortificati e più carnosi, cose tutte delle quali la pittura a olio non ha bisogno, ma bensì per rimediare ad un'accidental disgrazia che occorre talora a cagione dell'imprimitura, mestica o altro che dassi sopra le tele o tavole, o pure proviene dalle medesime tele o tavole, cioè d'attrarre così forte il liquido dell'olio, quasi rubandolo al colore, ch'e' venga in qualche luogo prosciugato per modo ch'e' non possa farsi vedere in superficie per tutto egualmente, com'egli avrebbe fatto col cessare di tale accidente; con che per mezzo d'un'altra cosa untuosa, che è la vernice data dove l'olio in superficie mancò, fassi apparire (e questo è il punto stretto e forte), con che fassi apparire lo scuro che già nella pittura fatta a olio veramente è, non quello che non v'è; che era appunto l'effetto che in qualche piccolissima parte faceva alle sue pitture la vernice d'Apelle. Concludo adunque, per quanto mia ignoranza intender può, che quantunque bellissime fossero le pitture degli antichi artefici, e che gli artefici stessi fossero uomini d'alto valore in lor mestiere, le loro pitture per cagione della già detta mancante materia non giungessero ad esser sì belle, sì perfette e tanto simili al vero, quanto quelle erano de' grandi maestri del passato secolo, che io a principio vi nominai.
Bibliografia: Lezione di Filippo Baldinucci... Firenze 1692; Raccolta di vari opuscoli sopra varia materia di pittura, scultura e architettura, Firenze 1765, pp. 67-96; F. Baldinucci, Delle notizie de' professori del disegno, Firenze 1767-1774, XXI, pp. 105-149; Opere di Filippo Baldinucci, Milano 1808-1812, XIV, pp. 272-319; BAROCCHI 1975, pp. 579-609.
Note: