Memofonte

Napoli

Questa sezione ambisce a riunire insieme le principali descrizioni e guide della città di Napoli date alle stampe durante il Cinque, il Sei e il Settecento, o rimaste inedite e pubblicate in tempi più recenti. La raccolta, ispirata a criteri omogenei di trascrizione, consentirà di ripercorrere diacronicamente quello che fu il genere più rigoglioso della letteratura artistica meridionale nella prima Età Moderna, mettendone in valore la complessa e duratura stratificazione di lessico, di notizie, di topoi ecfrastici. Il lavoro è promosso, su invito di Memofonte, da alcuni docenti della sezione artistica del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli   (Francesco Caglioti, con Francesco Aceto e Rosanna De Gennaro).

Esempio di citazione bibliografica delle guide presenti in questa sezione:

Pietro de Stefano, Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli […] (Napoli 1560), a cura di Stefano D’Ovidio e Alessandra Rullo, Firenze, Fondazione Memofonte, 2007 (solo in rete: http://www.memofonte.it/).

In consultazione

Benedetto di Falco (1480 circa - 1550 circa)

Considerato «il primo descrittore di Napoli» da Benedetto Croce (1920), l’umanista Benedetto di Falco, poeta, grammatico e membro dell’Accademia Pontaniana e di quella degli Incogniti con lo pseudonimo di Astemio, inaugura infatti a Napoli, con la Descrittione de i luoghi antichi di Napoli e del suo amenissimo distretto, del 1548 circa, il genere della letteratura di periegesi, o, più specificamente, della descriptio urbis, con il fine di salvare la memoria della propria terra, che «va di giorno in giorno tuffando nell’onde de l’oscuro oblio» (c. 4r). Pur contenendo gli intenti di una guida cittadina, l’opera non ne possiede ancora la struttura, e si colloca tra quei testi che preludono alla nascita delle guide intese in senso moderno. La Descrittione, che si presenta come un elogio di Napoli indirizzato all’imperatore Carlo V (sia pure non direttamente), ha avuto sette ristampe fino al 1680 (1549, 1568, 1580, 1589, 1617, 1679, 1680), una traduzione in latino nel 1733 (di Siwart Haverkamp – dall’edizione del 1679 – inserita nel IX volume del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiæ di Pieter Burman il Vecchio), e due riedizioni moderne, a cura di Ottavio Morisani (1972) e di Tobia Toscano (1992). A quest’ultimo va il merito di aver collocato la princeps della Descrittione, pubblicata frettolosamente senza data e senza privilegio, nel secondo semestre del 1548; al 1549 risale invece la prima impressione datata dell’opera (seconda, di fatto: l’edizione del 1568 viene poi indicata esplicitamente come terza edizione [«si è mandata la terza volta fuori»]).

Qui si trascrive (dall’esemplare della sezione manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli) la prima edizione della guida, cosa oggi rara, data alle stampe per i torchi di Giovan Francesco Suganappo e dedicata all’enigmatico e ancora oscuro Leonardo Curz o Khurz, personaggio forse legato alla corte dell’imperatore (e che scompare, in quanto dedicatario, dall’edizione del 1568).

Dopo una lode al bel sito di Napoli, la narrazione si snoda attraverso un itinerario discontinuo: da Posillipo a Piedigrotta e a Chiaia, fino ad arrivare al Monte Echia e a Poggioreale. Nel racconto del Di Falco, che ricorre spesso a fonti più e meno antiche (Virgilio, Livio, Plinio, Cicerone, Petrarca, Pontano), prevale l’interesse storico più che artistico: l’autore illustra le antichità di Napoli e quelle dei Campi Flegrei, raccoglie alcune iscrizioni latine e greche, accenna a vari aspetti della vita cittadina, e alle maggiori famiglie nobiliari, per poi concludere lodando le proprietà terapeutiche delle terme flegree. Scarsa è l’attenzione che l’erudito rivolge ai monumenti e del tutto assente quella per gli artisti delle opere che menziona, ma autentico è l’amore per la propria città, che trapela dai parecchi aneddoti, incisi e divagazioni, raccolti il più delle volte dalla tradizione orale, con un approccio empirico e spontaneo più che filologico. L’immediatezza della scrittura, unita allo stile «rimesso e rozzo», come scrive il Di Falco stesso (c. 44v), costituisce però uno dei pregi del volume, che «conserva un suo sapore originale, assai diverso dal tono freddo e distaccato delle molte successive guide» (O. Morisani, in Di Falco ed. 1972, p. XII).

Pietro de Stefano (floruit 1560)

Tesoro di notizie rare su molti luoghi scomparsi della città, il volume pubblicato da Pietro de Stefano nel 1560 occupa una posizione perfettamente bifronte nella vicenda del genere delle descrizioni di Napoli. Per un verso, infatti, esso è ancora strettamente legato all’eredità umanistica quattrocentesca di Giovanni Pontano, da cui riprende il modello poetico dei Tumuli, trasformandolo concretamente in un corpus vasto e rappresentativo delle epigrafi funerarie napoletane “messe in opera”. Poiché tuttavia inserisce le iscrizioni entro ampie cornici topografiche e storiche dei loro siti espositivi, il volume si trasforma per un altro verso nella prima “guida sacra” di Napoli mai affidata alle stampe. In tal modo esso viene incontro alle nuovissime esigenze della cultura controriformistica, cui fornisce un modello che sarà ancora vitale in pieno Seicento, grazie alle rielaborazioni di Cesare d’Engenio Caracciolo e di Carlo de Lellis.

Giovanni Tarcagnota (XVI secolo [n. 1508?])

Dopo essersi cimentato nei volgarizzamenti di testi antichi e umanistici (Cornelio Celso, Plutarco, Galeno, Flavio Biondo) e nella poesia (con la Favola di Adone, del 1550), e dopo aver lavorato più di trent’anni alle Historie del mondo, Giovanni Tarcagnota o Tracagnota (che utilizzò anche gli pseudonimi di Lucio Fauno e Lucio Mauro, e persino il nome di Andrea Palladio) compose il Del sito et lodi della città di Napoli, suo ultimo lavoro, pubblicato postumo nel 1566, l’anno stesso della sua scomparsa. Quella del 1566 è l’unica edizione antica fino a oggi conosciuta, nonostante che essa sia stata spesso ripresa e utilizzata dagli autori di guide cittadine più tarde. Anche se l’opera non fu mai integralmente ristampata, si può constatare che non tutti gli esemplari in circolazione sono identici: in alcuni sono state effettuate delle modifiche nella composizione delle parole, che interessano però, e variamente, solo alcuni fascicoli del volume (differenti anche da esemplare a esemplare).
Come nella guida di Benedetto di Falco, del 1548 circa, anche in questo caso viene concesso pochissimo spazio al patrimonio artistico in senso stretto. Più specificamente quella del Tarcagnota si può considerare la prima descrizione stradale di Napoli in forma letteraria, e, come è stato osservato (Tarcagnota ed. Strazzullo 1988, p. XIV), costituisce quasi un’integrazione alla pianta di Napoli disegnata da Étienne du Pérac e stampata da Antoine Lafréry a Roma nel medesimo anno (1566). Affascinato da Napoli (sebbene nato a Gaeta e vissuto tra Firenze e Venezia), l’autore si propone infatti di documentare gli interventi sul tessuto cittadino promossi dal viceré don Pietro di Toledo e indotti dall’incremento demografico, e lo fa fingendo un dialogo tra tre interlocutori – Giovanni d’Avalos e i fratelli Geronimo e Fabrizio Pignatelli – che non ritrae mai particolarmente, ma di cui fornisce alcuni indizi biografici all’interno del volume, in momenti diversi. Ricaviamo così che don Geronimo Pignatelli (narratore principale) era uno «scrivano di ratione» (c. 23r), e che Giovanni d’Avalos e Fabrizio Pignatelli erano due milites (c. 172r). La combinazione tra i nomi dei personaggi, i tempi dell’azione e il legame di sangue tra i due Pignatelli permette di identificare in costoro due rampolli del ramo dei duchi di Monteleone, figli di Camillo conte di Borrello e dunque fratelli del duca Ettore II (Girolamo morì nel 1567, Fabrizio nel 1577). Giovanni d’Avalos, a sua volta, dovrebbe essere un figlio di Alfonso III marchese del Vasto e poi anche di Pescara, qui citato almeno una dozzina di volte da Fabrizio Pignatelli. La conversazione si svolge «in una loggietta isfinestrata» di una villa dei Pignatelli sulle pendici del Vomero, da cui si ammirano «il mare et la città tutta», e prende l’avvio proprio da questa visione che si offre loro dall’alto. Nel primo libro vengono registrate le «tante mutationi […] fatte nella città» (cc. 1r-36r), che sono giudicate dall’autore positivamente (esse hanno nobilitato e reso Napoli «senza alcun dubbio […] più bella et più ordinata che prima», c. 12r); il secondo e il terzo libro sono dedicati rispettivamente a una breve «historia» di Napoli (cc. 37r-108v) e dei suoi re (109r-174v), ma entro il vasto contesto delle vicende europee e mediterranee.

Luigi Contarino (XVI secolo)

Nato a Venezia nella prima metà del XVI secolo, fra Luigi Contarino (o Contarini), conosciuto anche come “il Crocifero”, entrò a dieci anni nell’ordine dei Crociferi, compiendovi gli studi e ricoprendo varie cariche nell’ordine. Dopo un lungo soggiorno romano si trasferì nel 1559 a Napoli, nel convento di Santa Maria al Borgo dei Vergini, e dieci anni più tardi pubblicò La nobiltà di Napoli. L’opera, che sulla falsariga di Giovanni Tarcagnota si presenta in forma dialogica, più che una guida storico-artistica della città è un trattato storico-sociale. Due secoli dopo, Francesco Antonio Soria avrebbe espresso sul volume un giudizio negativo, scrivendo «a me sembra uno scrittore infelice, che tutto affastella senza veruna scelta» (I, 1781, p. 188), ma la conversazione tra Alessandro Leone e Ludovico Bembo – protagonisti qui come nell’Antiquità di Roma del medesimo Contarino (pubblicata nello stesso anno) – ha in verità un taglio alquanto mirato, perché i due interlocutori mirano a tessere le lodi del patriziato napoletano.

L’unica edizione della guida attualmente conosciuta è quella del 1569, sebbene essa fosse ristampata per Carlo Porsile nel 1678 (in un unico volume insieme all’Antiquità di Roma) e nel 1680 (entro una raccolta comprendente le Croniche di Giovanni Villano e l’Antichità di Napoli di Benedetto di Falco).

Nella presentazione il Contarino dichiara esplicitamente di non essersi preoccupato della forma: «non mi son curato scriver la presente opera in lingua toscana e tersa, ma nella materna e natural mia lingua» (p. 4); questo aspetto, che nel Di Falco può considerarsi un pregio, qui si apprezza solo parzialmente, perché il testo appare corrotto e pieno di refusi. Forse anche per questo motivo, quantunque la guida non fosse più ripubblicata o aggiornata, si pensò di intervenirvi sopra variamente: come già per il Tarcagnota, anche per il Contarino si è constatato che non tutti gli esemplari circolanti sotto la stessa data del 1559 sono esattamente uguali e che in alcuni di essi furono compiute delle modifiche ortografiche (non sistematiche) su alcuni quaderni.

Ferrante Loffredo († 1573)

Le antichità di Pozzuolo et luoghi convicini è il titolo di un’operetta di tipo periegetico scritta da Ferrante Loffredo, uomo di spicco del Viceregno spagnolo di Napoli, e stampata da Giuseppe Cacchi nel 1570. Le origini del lavoro rimontano all’inverno 1569-70, quando l’autore, che decise di risiedere nella città flegrea per beneficiare del clima salubre, si diede a tracciare, per mettere a frutto il suo otium, una mappa dei mirabilia dell’area: e li individuò nelle reliquie dei monumenti prevalentemente romani e nelle bellezze naturali, così come nei notevoli e assai tipici fenomeni termali e vulcanici. Coniugando con sapiente metodo e acuta sensibilità l’osservazione diretta dei materiali trattati, l’utilizzo delle fonti classiche (Tacito in primis, ma anche Plinio, Virgilio e altri) e la conoscenza della tradizione orale popolare, l’esperto uomo d’arme prestato agli studi umanistici incassò il sostegno del fidato Paolo Mòneco (al quale aveva fatto leggere il manoscritto), e poté così mettere a disposizione di alcuni suoi colti amici quello che fu il primo opuscoletto dedicato alle “cose puteolane”. A dispetto della volontà del suo artefice, che intendeva far circolare l’operetta solamente tra i suoi sodali, essa si conquistò un posto di rilievo nella nascente letteratura da viaggio, e per tale motivo ebbe un’ampia e duratura fortuna tipografica (1572-73, 1580, 1585, 1590, 1606, 1616, 1626). Inoltre il testo fu ripreso, insieme alle descrizioni dei bagni termali flegrei del cronista Giovanni Villani e del poeta Alcadino da Siracusa, nel Breve ragguaglio de’ bagni di Pozzuolo dispersi di Sebastiano Bartolo, del 1667, operazione ripetuta, escludendo i versi, da Pompeo Sarnelli nel 1675.

Fu nel 1572, ad appena due anni dalla princeps del 1570, la quale doveva aver riscosso un certo apprezzamento presso il ristretto pubblico cui era stata donata, che Le antichità di Pozzuolo et luoghi convicini di Ferrante Loffredo vennero ristampate. Di questa seconda edizione, però, non si occupò, come per la prima, il tipografo Giuseppe Cacchi, bensì Andrea Bax, “ad instantia” di Giovan Battista Cappello: entrambi avevano già avuto occasione di collaborare, sempre a Napoli, con quello stampatore aquilano, e forse proprio in questo modo erano venuti a contatto con l’operetta del Loffredo. Così, dopo che l’autore – probabilmente di persona – ebbe revisionato il testo, senza però spendere alcuna energia per accrescerlo, e dopo che Pietro Dusina, vicario generale dell’arcivescovo napoletano Mario Carafa, ebbe concesso l’imprimatur, le operazioni di stampa poterono essere avviate. Nonostante che la tiratura non dové essere molto consistente, la pubblicazione dei volumetti si protrasse fino all’anno seguente, il 1573, e, anzi, si concentrò nel nuovo anno, verosimilmente nei primi mesi: questo è quanto suggerisce un’analisi a campione dei frontespizî degli esemplari sopravvissuti, la maggior parte dei quali presenta come data di stampa il 1573 anziché il 1572. Loffredo fece appena in tempo ad assistere alla realizzazione di questa seconda impressione, dappoiché si spense di lì a poco, il 12 aprile 1573.

Giovan Francesco Araldo (1528-1599)

Tra il 1594 e il 1596 il gesuita marchigiano Giovan Francesco Araldo, giunto a Napoli per promuovere il primo insediamento locale della sua congregazione, avvia un’ampia Cronica della Compagnia di Gesù di Napoli, pervenutaci manoscritta. L’autore, acuto osservatore degli avvenimenti contemporanei, e dedito ad ampie fatiche agiografiche, è legato da una stretta collaborazione allo storico Giovanni Antonio Summonte, al quale dedica il quarto libro dell’opera, dicendosi profondamente grato a lui per averne favorito la stesura con alcuni suoi scritti.
A carta 322r della Cronica ha inizio un’illustrazione dell’imponente patrimonio ecclesiastico partenopeo, intitolata Relatione d’alcune chiese et compagnie di Napoli, che si interrompe a carta 383r. In piena e fervente stagione postridentina, l’edificio sacro è descritto dall’autore, per così dire, iuxta propria principia, privilegiando la storia del clero fondatore, il numero e le quantità delle entrate, le cariche di quanti officiano e amministrano, gli episodi di entità mistica maggiore. Non mancano gli elenchi delle reliquie di santi sparse per il Regno di Napoli. L’inquadramento topografico e il numero considerevole di fabbriche religiose passate in rassegna, dal Duomo alle cappelle più anguste e recenti, fanno eco alla Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli di Pietro de Stefano (1560), di cui la Relatione di rivela un vero e proprio aggiornamento, ponendosi nel contempo come un valido ponte verso la Napoli sacra di Cesare d’Engenio Caracciolo, data alle stampe nel 1623.

Girolamo Lippomano (1538-1591), Giovanni Battista Leoni (notizie dal 1571 al 1609), Girolamo Ramusio (1555-1610)

Una raccolta delle descrizioni di Napoli e del suo Regno nella prima Età Moderna risulterebbe gravemente mutila se non comprendesse le relazioni che su questo Stato e sulla sua capitale furono stese via via dagli ambasciatori della Repubblica di Venezia avvicendatisi nel Suditalia. Attraverso questo genere letterario del tutto ufficioso, con cui ciascun ambasciatore doveva preparare all’incarico il proprio successore, la Serenissima ci ha lasciato alcuni impareggiabili monumenti di lucida descrizione geopolitica e di sagace interpretazione storica e sociale. Lo sguardo esterno dei patrizi veneziani versati nella diplomazia internazionale vale dunque come ottimo complemento e correttivo delle descrizioni e auto-rappresentazioni che nello stesso periodo il Regno di Napoli produsse dal proprio interno. Le tre relazioni presenti in questo sito sono tutte quelle arrivateci dal secondo Cinquecento. L’edizione digitale è esemplata su quelle ottocentesche a stampa di Eugenio Albèri (1841, 1858, 1863).

Enrico Bacco (secc. XVI-XVII)

Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie è l’opera più famosa di Enrico Bacco, letterato e tipografo di origini tedesche giunto a Napoli nel 1575. Il volume rientra nel genere della corografia erudita dedicata al Mezzogiorno continentale e ha come modello la Descrittione del Regno di Napoli pubblicata da Scipione Mazzella nel 1586.
La prima edizione dell’opera di Bacco dovette essere stampata nel 1609, sebbene in alcuni esemplari (p.e.: Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Biblioteca Casanatense di Roma, Biblioteca Nazionale di Bari) compaia nel frontespizio, insieme agli auctoris insignia, l’anno 1608; quest’ultimo potrebbe essere interpretato come un errore di composizione generatosi dalla data 4 ottobre 1608 in calce alla lettera di dedica indirizzata dall’autore a Marino Caracciolo duca di Atripalda, e poi corretto in corso di stampa.
L’impostazione semplice e schematica dell’editio princeps (articolata in dodici capitoli – uno per ogni provincia – corredati da incisioni, e seguiti dagli elenchi dei re, dei viceré e degli offici del Regno, dei vescovadi e delle famiglie nobili, nonché dalla numerazione dei fuochi di Napoli fatta nel 1606) fu mantenuta nelle successive edizioni, ampliate e corrette, apparse fino al 1628, quando, con l’aggiunta della Descrittione particolare della città di Napoli e suoi casali, con l’antichità di Pozzuolo e di molte altre città e terre del Regno, l’opera acquistò i tratti di una guida stricto sensu.

Giuseppe Mormile

Sebbene nel titolo della sua opera Giuseppe Mormile dichiari di voler trattare soprattutto di Napoli e Pozzuoli, la Descrittione della città di Napoli e del suo amenissimo distretto, et dell’antichità della città di Pozzuolo si presenta, di fatto, come una delle prime estese guide dedicate a città flegree quali Baia, Cuma e Miseno: e se a queste ultime (Pozzuoli inclusa) sono dedicati ben trentacinque capitoli, soltanto quattordici riguardano Napoli. L’edizione del 1625 segue di otto anni la princeps (1617), rispetto alla quale è più accurata per sintassi e tipografia, e di poco più ampia, e precede di quarantacinque anni la terza e migliore impressione ultima (1670).

Mormile fu un prete colto, esponente dell’aristocrazia napoletana, appassionato antiquario e conoscitore della tradizione periegetica locale, padronanza, quest’ultima, che gli permise di riutilizzare qui alcune xilografie del Sito et antichità della città di Pozzuolo di Scipione Mazzella (1594) e della Puteolana Historia di Giulio Cesare Capaccio (1604). Il testo dà molte informazioni di carattere storico, storico-artistico (in special modo per Napoli) e toponomastico, oltre a soffermarsi a lungo sulla descrizione dei numerosi bagni napoletani e puteolani e sui loro varî effetti benefici. Spesso gli argomenti trattati sono sorretti da citazioni latine, e un posto di rilievo è assegnato al materiale epigrafico superstite nell’area flegrea, cui è dedicato per intero l’ultimo capitolo. Nelle pagine finali della guida, Mormile riesce a inserire il resoconto di un colloquio avuto, a stampa già avviata, con il vescovo di Pozzuoli, Lorenzo Mongioio: a costui si devono le notizie sulla miracolosa “acqua de’ Cantarelli” e, a conferma di quanto già ricordato altrove nel volumetto, nuovi elogi tributati alla salubrità dell’aria e dell’acqua della magnifica città di Pozzuoli.

L’edizione 1670 della guida di Napoli e Pozzuoli scritta dal Mormile è di certo la migliore delle tre versioni seicentesche a oggi note. L’indicazione secondo cui l’opera sarebbe stata “dall’istesso autore accresciuta di molte cose non meno curiose che utili” sembra da intendersi più correttamente come il recupero, con una leggera modifica, di quanto già espresso nel frontespizio del 1625, essendo poco probabile che il nostro, già attivo nel 1617 quando presentava la princeps, ne fosse ancora il revisore all’inizio degli anni settanta del secolo. Considerando, allora, che il testo del 1670 fu stampato “ad instanza d’Adriano Scultore”, e che questi firma anche la dedica all’architetto regio Francesco Antonio Picchiatti, sembra lecito attribuirgli anche l’introduzione al lettore (in cui lo scrittore parla di sé in prima persona ma non si firma), e forse la curatela dell’intera opera. Circa la cronologia compositiva del testo, è da credere che si partisse dall’ampia descrizione di Pozzuoli, datata nel frontespizio al 1669, e che si proseguisse con la sezione napoletana, conclusa al massimo entro il “4 febraro” 1670 della dedica, per procedere dunque, presso la “Stampa di Giovan Francesco Paci”, alla pubblicazione dell’intero volume.

In quest’ultima impressione scompaiono le incisioni dedicate a Napoli e restano invariate nel numero di sedici quelle per Pozzuoli; indicativa della volontà di migliorare l’opera, inoltre, è la precisazione che la grande tavola con “l’amenissimo paese di Pozzuolo e luoghi convicini” vada collocata “nel principio dell’Antichità di Pozzuolo, dopo il frontespitio”, una novità rispetto all’edizione 1625.

Nel complesso, il contenuto dell’opera non subisce variazioni sostanziali, ma i numerosi interventi ‘minimi’ che contraddistinguono il testo, come per esempio l’opportuna aggiunta di congiunzioni e la ricomposizione sintattica dei periodi poco comprensibili, lo rendono di gran lunga più corretto e scorrevole.

Giulio Cesare Capaccio

Cominciato a stampare nel 1630 (data che appare nel frontespizio), ma concluso soltanto nel 1634, Il forastiero offre al pubblico la sua cornucopia storica, geografica, antiquaria, artistica, attraverso la finzione letteraria di un dialogo tra un curioso visitatore della capitale del Viceregno (il “forastiero”, appunto) e un informatissimo napoletano (il “cittadino”). La materia, dipanandosi lungo il corso di dieci giornate di colloquio, divaga ben al di là dei limiti che ci si aspetterebbe dal genere delle guide, ma nonostante ciò, o forse proprio per ciò, Il forastiero ha avuto nei secoli la fortuna di uno strumento da viaggio di straordinario spessore culturale. Costituisce una sorta di appendice al volume un dialogo sull’eruzione del Vesuvio verificatasi nel dicembre del 1631.

Giovanni Antonio Alvina

Nel 1883 Stanislao d’Aloe pubblicò nell’“Archivio storico per le province napoletane” un manoscritto secentesco anonimo intitolato Catalogo di tutti gli edifizi sacri della città di Napoli e suoi sobborghi. Di tale testo, all’epoca nell’archivio della chiesa di San Giorgio Maggiore di Napoli, e oggi irrintracciabile, è stata restituita nel frattempo la paternità al padre camilliano Giovanni Antonio Alvina. Di origini napoletane, egli è ricordato a più riprese da Carlo de Lellis nell’Aggiunta alla Napoli sacra dell’Engenio Caracciolo (entro il 1689) come autore di “un libro delle chiese e cappelle di Napoli […] cosa in sé stessa anche coriosa, per aversi cognizione con tal sua opera in questa materia di ogni minuzia e minima cappelluccia della città”. Entrato diciottenne nella congregazione dei ministri degli infermi, e tenuto in grande stima dal fondatore Camillo de Lellis, padre Alvina s’impegnò fino all’ultimo nella compilazione del Catalogo, poi aggiornato, a distanza di circa un ventennio, da un altro autore con aggiunte sparse. In ordine singolarmente alfabetico, il religioso passa in rassegna gli edifici sacri stanziati via via in città, informandoci talvolta della storia e degli ammodernamenti delle chiese di antica fondazione, talaltra del proliferare di piccole cappelle beneficiali, poi abbattute in vista di ulteriori ampliamenti viari o architettonici. La notevole quantità delle fabbriche religiose illustrate, circa 648, rende il Catalogo di tutti gli edifizi sacri una fonte preziosa per la conoscenza della topografia sacra di Napoli nel corso del secolo XVII.

Carlo de Lellis († 1689 circa)

Opera a stampa tra le più antiche di uno degli eruditi più instancabili e più solidi del Seicento napoletano, il Supplimento di Carlo de Lellis si propone di emendare e soprattutto di aggiornare l’importantissima guida sacra all’antica capitale del Regno meridionale data alle stampe più di trent’anni prima da Cesare d’Engenio Caracciolo (1623). Il lavoro, condotto mediante una verifica puntuale dei molti siti e monumenti ricordati, e soprattutto delle fonti d’archivio ad essi connesse, può considerarsi un saggio anticipatorio dell’assai più ambiziosa Aggiunta alla Napoli sacra dell’Engenio, cui De Lellis lavorò nei trentancinque anni successivi, lasciandola manoscritta e incompiuta alla sua morte (1689 circa).

Monumento di erudizione e documentazione dedicato alla città di Napoli, l’Aggiunta di Carlo de Lellis si compone di cinque tomi manoscritti, numerati a fogli (tranne il secondo, numerato a pagine), per oltre millecentottanta carte complessive (Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, ms. X.B.20-X.B.24). L’autore vi mise mano poco dopo aver licenziato il Supplimento, opera della quale riconosceva l’incompletezza (“perché quella fu più presto aborto che perfetto parto del mio ingegno, per la fretta per la quale a comporla e produrla in luce fui spinto”: Introduzione, tomo I, c. 2v), e il lavoro l’avrebbe accompagnato – rimanendo incompiuto – per tutto il resto della sua vita. Il carattere non finito dei volumi emerge dall’esame codicologico e testuale, che rivela l’intervento di mani diverse e un continuo lavoro di revisione. In questo secondo e più ampio aggiornamento della guida di Cesare d’Engenio Caracciolo (1623) De Lellis offre uno spaccato assai più generoso della città, indugiando maggiormente su aspetti legati alla tradizione, al costume e alla devozione. Da una messe talvolta indigesta di informazioni religiose, genealogiche, aneddotiche affiorano tuttavia numerosissime ricognizioni – spesso originali – sullo stato dei monumenti e del patrimonio storico-artistico napoletano nella seconda metà del Seicento (prima del devastante terremoto del 1688). Tutta questa materia si offre per la prima volta qui a un’esplorazione sistematica, dopo l’edizione a stampa del tomo I curata da Francesco Aceto nel 1977. Il lavoro di trascrizione e di edizione dei cinque volumi dell’Aggiunta si è avvalso del generoso sostegno finanziario dei coniugi Darcy e John T. Beyer, cari amici della sezione storico-artistica del Dipartimento di Studi Umanistici della “Federico II” di Napoli.

Carlo de Lellis, Aggiunta alla “Napoli sacra” dell’Engenio Caracciolo, entro il 1689 (Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, mss. X.B.20- X.B.24), a cura di Elisabetta Scirocco, Michela Tarallo e Stefano De Mieri, con la collaborazione di Alessandro Grandolfo, Antonella Dentamaro, Simona Starita e Luigia Gargiulo

Tomo I, ms. X.B.20

- PDF - pubblicato: maggio 2013

Tomo II, ms. X.B.21

- PDF - pubblicato: maggio 2013

Tomo III, ms. X.B.22

- PDF - pubblicato: maggio 2013

Tomo IV, ms. X.B.23

- PDF - pubblicato: maggio 2013

Tomo V, ms. X.B.24

- PDF - pubblicato: maggio 2013

Carlo Celano (1617-1693)

Stampate nel 1692, ma lungamente elaborate nel corso dei decenni precedenti (e concluse in molte parti già negli anni ottanta), le Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forastieri date dal canonico Carlo Celano napoletano, divise in dieci giornate, sono l’opera periegetica più ampia, variegata e significativa mai dedicata da un solo scrittore alla capitale del Regno meridionale. Frutto di un tenace sforzo di documentazione condotto sulla letteratura manoscritta e a stampa e sulle carte d’archivio, e specialmente sull’autopsia dei luoghi e dei monumenti, il patrimonio di conoscenze messo insieme da Celano avrebbe fornito per oltre un secolo la base principale a ogni altro testo guidistico su Napoli: ma lo sforzo dei nuovi autori sarebbe stato perlopiù di ridurre in pillole le appassionate e generose descrizioni e narrazioni ritrovate nella loro fonte. Accanto a questa fortuna dissimulata e avvilita, le Notitie di Celano ne avrebbero avuta una più ufficiale e appagante di riedizioni aggiornate (ben tre nel Settecento), sino a quella data alle stampe tra il 1856 e il 1860 da Giovan Battista Chiarini, responsabile di un apparato integrativo non meno cospicuo del testo originario. Ancora nel secolo scorso l’opera di Celano ha conosciuto, unica fra le guide napoletane pre-ottocentesche, una ripubblicazione non anastatica (1970).

Coordinamento redazionale delle dieci Giornate: Fernando Loffredo

Pompeo Sarnelli (1649-1724)

Pugliese di nascita ma napoletano d’adozione, vescovo di Bisceglia e copioso poligrafo, Pompeo Sarnelli dà per la prima volta alle stampe la sua Guida de’ forestieri curiosi di vedere […] Napoli nel 1685, quando le descrizioni della città e del Regno meridionale hanno ormai alle spalle una lunga e robusta vicenda. Ciononostante, quest’opera è la prima che riesca a far confluire all’interno di un volumetto assai maneggevole una massa sintentica, ben scelta e ben organizzata dei dati di storia, d’arte, di paesaggio e di costume che importano al visitatore cólto. Ad accrescere l’interesse dei “curiosi” è per la prima volta un nutrito corredo di illustrazioni dei principali mirabilia, interfoliati in piene pagine all’interno dei vari capitoli. Da qui, anche, il successo della guida, più volte aggiornata e ristampata – pure in francese – fino al 1801. A torreggiare su ogni altro tema resta nel libro la “Napoli sacra”: ma a partire dalla riedizione del 1697 il Sarnelli e il suo editore Antonio Bulifon le affiancheranno abilmente una nuova Guida de’ forestieri curiosi di vedere i Campi Flegrei.

Pompeo Sarnelli, Guida de’ forestieri curiosi di vedere e d’intendere le cose più notabili della regal città di Napoli e del suo amenissimo distretto, Napoli 1685, a cura di Giuseppina Acerbo

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Parte I

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Parte II

- pubblicato: dicembre 2008

Le finalità della seconda edizione della Guida de’ forestieri curiosi di vedere […] Napoli del 1688, a tre anni di distanza dalla prima, sono esplicitate dall’autore stesso nell’Introduzione (c. Ir-v): “la presente opera della Guida de’ forestieri, la quale è stata a’ curiosi delle napoletane memorie oltremodo a grado, essendomi convenuto, per le richieste che a giornate ne ho avute, pubblicarla di nuovo per mezzo delle stampe, ho giudicato di doverle aggiungere qualche bel fregio e ornamento, onde ella pervenisse cara anche a coloro che altre fiate veduta l’hanno”. Il già corposo impianto descrittivo del 1685 viene dunque arricchito non solo da precisazioni sparse qua e là all’interno del testo, ma anche dall’aggiunta di edifici precedentemente non trattati (Sant’Eligio, Santa Maria di Loreto a Toledo, Santa Brigida di Svezia, Santissima Concezione, Croce di Palazzo e altri) e dall’esposizione più dettagliata di importanti complessi religiosi, quali l’Oratorio dei padri di san Filippo Neri, la Santissima Annunziata e la Certosa di San Martino. La maggior articolazione della Guida del 1688 si riflette anche nel corredo illustrativo, che passa da quarantasei a cinquantacinque tavole, accompagnate, in taluni casi, da nuove dediche a importanti personaggi regnicoli e forestieri. Tra le incisioni aggiunte rispetto all’edizione del 1685, si segnala in particolare una veduta della città di Napoli con l’indicazione dei principali monumenti.

La Guida de’ forestieri del 1697 è la quarta edizione della fortunata opera di Pompeo Sarnelli, pubblicata a dodici anni dalla princeps (1685), nove anni dopo la prima ristampa (1688), e cinque anni dopo la terza (1692). Come nelle edizioni precedenti, l’opera fu edita grazie ad Antonio Bulifon, che se ne occupò prima della partenza per la Spagna, dove morì pochi mesi dopo il suo arrivo, nel 1707. La Guida del 1697 fu data alle stampe a Napoli, presso Giuseppe Roselli, e dedicata a Luigi Emanuele Pinto y Mendoza (1668-1704), scrivano di razione della Gran Corte della Vicaria.

Quest’edizione è corredata, come le precedenti, dal catalogo delle opere dell’autore, le cui notizie non sono fornite da lui, ma da un amico dell’editore Bulifon, che tiene a precisarlo nella prefazione.

La narrazione della storia della città di Napoli, con la descrizione delle chiese e dei monumenti principali, segue nelle linee essenziali l’edizione del 1688. È possibile riscontrare, però, una maggiore attenzione nel riportare alcuni dettagli, come nomi di artisti e notizie di rifacimenti di alcune fabbriche, nonché l’aggiunta di edifici non trattati precedentemente quali le chiese di Santa Maria della Redenzione, di Santa Maria Porta Cœli e di Santa Maria della Stella.

Come spiega ancora Bulifon nella prefazione, anche quest’edizione fu dotata di tavole fatte “incidere in rame, senza guardare a spesa”, con “le vere figure delle cose più notabili colle loro scale, per saperne la certa grandezza”. Tutte le incisioni sono state realizzate dal disegnatore Sebastiano Indelicato e dall’incisore Federico Pesche, fatta eccezione per la Porta di San Paolo, eseguita da Giovan Battista Brison. Sono in tutto 48 e, rispetto all’edizione del 1688, mancano le immagini dell’antiporta (sostituita da quella di Porta Capuana), del Seggio del Popolo, e dell’Altare di San Francesco Xaverio; sono state aggiunte, invece, quelle della Porta dell’Arcivescovado e del Sepolcro de’ signori Brancacci.

Le tavole, poi, sono tutte corredate di una dedica a personaggi di rilievo dell’epoca, sia regnicoli che stranieri, ad esclusione dell’Altare di Sant’Ignazio e della Cappella ove fu decollato il re Corradino, che ne sono prive. Le dediche sono in gran parte le medesime dell’edizione del 1688, tranne che per il Tabernacolo della Santissima Trinità e per la veduta di Posilipo. Nei casi che seguono, infine, la dedica, assente nell’edizione del 1688, è stata aggiunta in quella del 1697: Regii Palatii NeapoletaniAltar Maggior della Santissima AnnunziataAltare Maggiore della chiesa di Santa Teresa e Sepolcro di don Pedro di Toledo in San Giacomo.

La maggioranza delle tavole inserite in questa trascrizione proviene dall’esemplare della Biblioteca Universitaria del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” (Rari.A26), eccettuati il Tabernacolo di Santi Apostoli, l’Altare di Sant’IgnazioSan Giovanni di Pappacodi, la Cappella della famiglia Sanseverina, il Sepolcro di Andrea Bonifacia, l’Altar Maggiore in Santa Maria della NovaSanta Maria delle Grazie in Santa Maria della Nova e la Cappella del Beato Giacomo, che, assenti nell’esemplare citato, sono stati reperiti in quello della Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele III” (Sezione manoscritti, Rari Branc. G23). Un caso diverso è quello del Sepolcro del cavaglier Marini, la cui immagine, assente in entrambi i volumi napoletani, proviene da quello della Biblioteca Universitaria del Michigan ad Ann Arbor (DG842.S25.1697), disponibile in rete.

In tutti gli esemplari consultati si è potuta riscontrare una certa incongruenza nella distribuzione delle tavole all’interno del testo: sebbene gran parte di esse siano state interfoliate e paginate in modo da avere corrispondenza con l’ordine della guida, talvolta tale condizione viene a mancare, per cui la posizione delle tavole risulta corretta solo se si tiene conto dell’argomento trattato nelle pagine vicine, mentre la numerazione è del tutto erronea. In questi casi si è deciso di rispettare comunque la posizione originaria delle incisioni: in primo luogo per evitare di alterare in maniera considerevole il volume, e, inoltre, per agevolare il lettore nella consultazione, facendo sì che alla lettura delle notizie fosse affiancato lo studio delle immagini.

La vera guida de’ forestieri curiosi di vedere […] Napoli del 1708-1713 è la quinta edizione, a undici-sedici anni dalla terza (1697), della Guida de’ forestieri del 1685. La sua uscita può essere ricondotta alla volontà dello stampatore Michele Luigi Muzio di rilanciare la propria attività, dopo un periodo di crisi vissuto all’inizio del Settecento, con l’edizione e la vendita di opere di facile smercio. Il momento propizio fu il luglio 1707, quando Antonio Bulifon, suo antico rivale ed editore fino a quel momento del volumetto di Sarnelli, emigrò in Spagna e vi morì poco dopo. L’autorizzazione necessaria a ristampare l’opera fu rapidamente ottenuta nei mesi seguenti (tra ottobre e novembre, come dalle carte Ir e IIr). I lavori furono immediatamente avviati: le pagine furono composte e le matrici delle incisioni preparate, e le prime copie videro la luce già nel 1708 (come dall’esemplare della Biblioteca Nazionale di Vienna). La tiratura, però, dové essere alquanto limitata, forse a causa di problemi economici nel frattempo sopraggiunti: il Muzio aveva sicuramente avuto difficoltà a trovare un finanziatore, cosa che si ricava dall’assenza di dediche in apertura dello scritto e dallo stato in cui si ripresentano le immagini acquistate dall’edizione del 1697 (in molte di esse si osserva l’abrasione dei vecchi testi dedicatori, ormai inutili). Era tuttavia intenzione dello stampatore non abbandonare il progetto: le pagine, così come erano state composte, insieme alle matrici, furono conservate in attesa di tempi più propizi. Questi giunsero alcuni anni dopo, quando, ricomponendo solo il frontespizio con la data corretta dal 1708 al 1713 e la pagina contenente l’autorizzazione alla ristampa (non si intervenne sulle matrici, e questo è il motivo per cui la data nell’antiporta è rimasta 1708), fu finalmente prodotto il resto dello copie (come dagli altri esemplari consultati).

Pubblicata ventotto anni dopo la morte dell’autore, La vera guida de’ forestieri del 1752 è la sesta edizione della fortunata opera del vescovo di Bisceglie, stavolta a cura della stamperia di Giuseppe de Bonis. Recuperando la precedente edizione (1708-1713), la descrizione viene “ampliata con molte moderne fabriche” da un ignoto redattore. Le aggiunte riflettono le novità intervenute con l’aprirsi del dominio borbonico: gli ampliamenti stradali e portuali, le scoperte di Ercolano, la Reggia di Portici e le ville del Miglio d’Oro, e ancora il Teatro di San Carlo e brevi cenni a progetti in corso d’opera.
Le tavole inserite in questa nostra trascrizione provengono tutte dall’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli (Fondo Rari Doria 59), dal momento che la scansione dell’esemplare della Guida di Sarnelli conservato nella Bodleian Library di Oxford (8° SIGMA 66), e caricata in rete, riporta solo l’antiporta e la pianta di Napoli. Per contro, gli esemplari della British Library di Londra (1578/5387) e della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (037/Gs 8349), parimenti reperibili in rete e da noi usati per raffronto, non presentano alcuna tavola al loro interno.
L’antiporta dell’esemplare bodleiano è ricavata dall’edizione del 1708-1713, ma appare come una riproduzione semplificata di questa, e senza tutte le didascalie: l’unica scritta presente è quella inserita nel cartiglio sorretto dai due angeli tubìcini, il quale però, invece di riportare il titolo Guida de’ forastieri come nel suo modello, recita Porta Capuana; gli edifici e le persone visibili attraverso l’arco sono inoltre riprodotti a specchio rispetto all’originale. L’esemplare napoletano presenta un’antiporta differente, simile a quelle inserite nella princeps (1685) e nell’edizione del 1688, ma con alcune varianti: l’arco d’ingresso ha una struttura muraria diversa e non mostra più in alto al centro lo stemma della città; non è stato inserito il Mercurio volante col cartiglio e la scritta Guida de’ forastieri; il cavaliere sul cavallo rampante volge lo sguardo verso lo spettatore e non più verso l’alto; non è presente il cagnolino ai piedi del viandante ed è stata omessa la fascia sottostante con le note tipografiche e lo stemma centrale, sostituita dalla semplice scritta in stampatello Guida de’ forestieri; i dettagli delle architetture sono invece perfettamente coincidenti.
Nell’esemplare di Oxford presente in rete, la pianta di Napoli è stata scansionata ripiegata, ma è possibile intuire, dallo stemma cittadino inseritovi, che si tratta della stessa immagine utilizzata nell’edizione del 1708-1713. L’esemplare napoletano presenta invece una pianta diversa: si tratta de La fedelissima Città di Napoli, disegnata da Carmine Perriello e incisa da Giuseppe Pietrasante (mm 225×358), che è tratta dal primo volume dell’opera di Carlo Celano Notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napolinell’edizione del 1724.  Le tavole con la Facciata del Regio Palazzo, la Guglia di San Gennaro e la Cappella del cardinal Filamarino provengono dalla stessa edizione del Celano, e sono firmate dal disegnatore Carmine Perriello e dall’incisore Andrea Magliar.
Le tavole che rappresentano scorci e vedute di Napoli, dei suoi borghi e delle isole provengono da una grande incisione di Paolo Petrini intitolata Pianta e alzata della città di Napoli adornata da vintuno vedute delle più belle fabriche, fortezze e strade di essa (1707), “vedute” poi inserite in un volume dello stesso Petrini, Principal parte della città di Napoli, pubblicato nel 1718 (Biblioteca Nazionale di Napoli, Sezione Napoletana, VII.C7). La tavola con la Veduta del monte Vesuvio, sempre firmata da Petrini, deriva da un’originale incisione ad acquaforte (mm 127×235) in foglio sciolto; non è datata, ma una didascalia sottostante (non riportata nel Sarnelli) recita così: “È celebre questo monte per le grandi eruzzioni che ha fatto in vari tempi dalla sua cima, la quale nell’anno 1631 si abbassò tanto per l’eruzzione grande di pietre, bitume et acqua che vi fe’ nel mezzo una grandissima concavità. Hoggi dì, però, si vede in quel mezzo sorto un altro monte di pietre e bitume dal continuo fuogo che ha fatto e fa, et ha altresì la sua cima concava, onde escon fuori esalazioni semper mai”; quindi si fa riferimento a un’eruzione in corso, che deve essere compresa tra il 1692 e il 1748, anni dell’attività di Petrini a Napoli.
La tavola con la Divisione del Regno di Napoli, dell’incisore Filippo de Grado, è stata inserita per accompagnarsi alle Notizie generali del Regno nella parte finale dell’edizione.

Domenico Antonio Parrino (1642-1716)

La Napoli città nobilissima del Parrino, attivissimo e fortunato editore prim’ancora che scrittore, inaugura il Settecento delle guide partenopee con un agile formato in 12°, nel quale confluisce una vasta congerie di notizie di seconda mano, estratte a man bassa dalla più accreditata letteratura periegetica, storica ed antiquaria locale dei due secoli precedenti. Il dettato è spesso frettoloso e involuto, e non di rado ingenera madornali sviste di dettaglio: ma i due volumetti, non a caso più volte ristampati ed aggiornati sino al 1751, si segnalano tra i più antichi esempi meridionali di guida turistica cittadina nell’accezione tuttora corrente.

Questa Nuova guida de’ forastieri è la sesta edizione dell’opera di Domenico Antonio Parrino Napoli città nobilissima, antica e fedelissima, aggiornata «con moderne notizie» da suo figlio Niccolò, il quale, alla morte del padre sopraggiunta nel 1716, iniziò a occuparsi non solo della stamperia di famiglia – come si può ricavare dal frontespizio dell’edizione del 1720 –, ma anche delle frequenti ristampe del testo periegetico.

Il volume conserva il formato in 12° della princeps, oltre a contenere le stesse tavole con le relative dediche, talvolta, tuttavia, erase; realizzate con un tratto sommario, tali incisioni in rame ripropongono vedute di Napoli, e rappresentazioni di specifici monumenti, qualitativamente inferiori rispetto alle illustrazioni che arricchiscono i coevi testi periegetici napoletani; inoltre, in tutti gli esemplari consultati della stessa edizione, tra le acqueforti elencate nell’indice è assente la veduta dell’Annunziata.

L’inserimento ex abrupto degli aggiornamenti di Niccolò entro l’impianto compositivo della princeps, e l’omissione di alcune notizie in essa contenute, si prestano a non rare confusioni e incomprensioni, aumentate a tratti da un linguaggio fortemente involuto. Malgrado ciò, la proposta periegetica dei due Parrino continua a distinguersi per un contenuto che ricalca sì la tradizione delle guide napoletane, ma risalta nel contempo per originalità di tono.

Niccolò Parrino diede alla luce nello stesso anno (1725) ben due edizioni della Nuova guida de’ forastieri, per osservare e godere le curiosità più vaghe e più rare della fedelissima gran Napoli, cosa non facile da spiegare, considerando che per nessun argomento trattato una guida si presenta aggiornata rispetto all’altra; anche le illustrazioni – molte delle quali con una loro propria dedica – non presentano modifiche, cosicché a un primo sguardo entrambe le edizioni del 1725 appaiono sostanzialmente gemelle.

È il frontespizio, però, ad anticipare un elemento nuovo, la dedica a don Diego Ripa, barone di Pianchetella, lungo la quale si sviluppa l’elogio della famiglia Ripa, e delle virtù del barone e dei suoi fratelli: ma le parole di gratitudine dell’autore non aprono alcuno spiraglio all’individuazione del motivo per cui Niccolò ristampò il testo, scarno di nuovi contenuti, e non forniscono neppure elementi per stabilire quale delle due edizione vide la luce per prima.

È lecito supporre, però, che questa edizione con dedica sia seriore: confrontandola con l’altra edizione del 1725, essa potrebbe definirsi il frutto di un lavoro di revisione e di miglioramento, per il quale Niccolò guardò all’originario lavoro paterno, correggendo molti errori tipografici e reinserendo le versioni in greco di alcune epigrafi, presenti nell’editio princeps (1700) e omesse nell’altra edizione del 1725. Non è poi da escludere l’ipotesi che il dedicatario, grazie a qualche aiuto economico, fornisse l’occasione per la ristampa, giacché nel 1725 Niccolò Parrino pubblicò anche la Nuova guida de’ forastieri per l’antichità curiosissime di Pozzuoli, riprendendo nuovamente l’impostazione dell’editio princeps, che prevedeva la divisione dell’opera in due volumi, uno per Napoli, e l’altro per le sue isole e per Pozzuoli.

Nonostante i miglioramenti, il linguaggio del testo resta involuto, e continua a generare non rare sviste di contenuto, a causa delle nuove informazioni inserite da Niccolò entro l’impianto immutato della princeps. In tutti gli esemplari consultati di questa edizione la veduta dell’Annunziata è l’unica tavola assente, così come in quelli dell’altra edizione del 1725.

Giovanni Carafa duca di Noja (1715-1768) e Niccolò Carletti (1723-1769 circa)

Monumento dell’illuminismo meridionale, la Mappa topografica della città di Napoli e de’ suoi contorni fu fortemente desiderata ed avviata nel 1750 da Giovanni Carafa duca di Noja e, dopo la sua morte, rifinita e stampata nel 1775, in 35 tavole, per cura di Giovanni Pignatelli. Le didascalie che l’accompagnano forniscono “non già un indice topografico, ma un’accorciata spiegazione storiografa dell’antico e del moderno” della città (così come si esprime l’architetto Niccolò Carletti, loro redattore), che collaziona un gran numero di notizie, peraltro non sempre attendibili, da guide e testi storici. Serbando memoria dell’antica toponomastica urbana, tale “spiegazione” s’impone come fonte necessaria per le ricerche su un territorio drammaticamente modificato fra Otto e Novecento; sulla sua base, e con l’aggiunta di estese note erudite, Carletti pubblicò in volume una Topografia universale della città di Napoli (1776). È parso opportuno anteporre alla “spiegazione” la Lettera […] sull’utilità e gloria che si trarrebbe da una esatta carta topografica della città di Napoli, redatta ma non firmata dal Duca di Noja e pubblicata nel 1750: appassionato manifesto intellettuale, essa è indispensabile alla comprensione dell’ambiente in cui nacque la mappa.

Giuseppe Sigismondo (1739-1826)

I tre tomi della Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, pubblicati fra il 1788 e il 1789, sono l’opera di un versatile poligrafo e musicista, attivo come bibliotecario, archivista e copista presso alcune tra le principali istituzioni musicali napoletane in uno dei periodi più alti della loro storia. Benché gli interessi musicali dell’autore si facciano spesso strada tra le pagine della Descrizione, quest’ultima è una guida che raccoglie e presenta la molteplice materia corografica e periegetica in modo equilibrato e ben distribuito. I volumi di Sigismondo, nello stesso tempo ampi e agili, offrono perciò una summa aggiornata della tradizione guidistica napoletana, imponendosi come la più utile rappresentazione della capitale del Regno alla vigilia della Rivoluzione francese e della caduta dei regimi antichi.

sezione a cura di: Francesco Caglioti